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ISOLARIO FANTASMA - L'Arcipelago delle impossibili

Aggiornamento: 9 mag






Ovvero:


Di cartografie mitiche, corsari francesi, scaltri fratelli veneziani, mappe misteriose, fanciulle in lotta contro demoni e orsi polari, inabissamenti improvvisi, santi pellegrini dal volto luminoso, tesori perduti e leggendari, forse ritrovati.



Isolario fantasma


Ci sono isole che sono state poco più che un abbaglio, apparse al marinaio come il miraggio d’un momento. Terre mai emerse ma riportate sulle mappe per decenni, a volte secoli, senza che nessuno ci abbia mai messo piede o le abbia davvero avvistate, impresse sulle carte in forza di qualche leggenda, di una diceria raccontata con abbastanza convinzione. Sono state teatro di storie assurde o fantastiche; atolli visitati da mitici santi pellegrini o lande deserte su cui fanciulle naufraghe hanno respinto per anni gli assalti di demoni d’ogni specie; sono affiorate improvvisamente dall’acqua e con la stessa disinvoltura sparite per sempre tra i flutti, dando appena il tempo di registrarne l’esistenza; sono state un inganno, un’approssimazione o persino una truffa.


Zanara, Ferdinandea, Frislanda, l’Isola dei Demoni: nomi di isole svanite, fantasma. Mappa alla mano sarebbe effettivamente impossibile trovarle sui moderni atlanti, ma c’è stato un tempo in cui qualcuno le ha disegnate, ne ha immaginate forme e dimensioni.  Per ragioni diverse poi sono scomparse. L’Isola di Buss, ad esempio, apparve per la prima volta ai marinai dell’Emmanuel, un vascello della flotta del corsaro Frobisher, e per tre secoli a partire dal 1578 è rimasta sulle mappe, posizionata accanto all’altrettanto fantasmatica Frislanda. Nel 1673 la compagnia marittima Hudson’s Bay Company, convinta dalle cronache avventurose del capitano Shepherd, il quale si fregiava di aver visitato personalmente l’Isola di Buss, chiese e ottenne dal re Carlo II una franchigia per il commercio sull’isola. La concessione ottenuta permetteva alla compagnia di potersi impossessare di tutto quello che c’era sull’isola e intorno. Il capitano Shepherd, avendo venduto l’idea dell’isola alla compagnia, si guadagnò di conseguenza la possibilità di imbarcarsi per ulteriori esplorazioni.


La certezza dell’esistenza dell’Isola di Buss, dovuta forse a un effetto ottico o a una confusione dei marinai dell’Emmanuel, i quali scambiarono la costa della Groenlandia per un’isola, si ridusse tanto da cominciare a pensare che essa fosse affondata per ragioni vulcaniche. Nel 1818, la prima spedizione artica di John Ross evidenziò che dove si indicava l'inabissamento, non c’erano tracce di secche e parve dunque impossibile che ci fosse stata una qualunque terra emersa. Si convenne, con buona pace della Hudson’s Bay Company, che l’isola non c’era mai stata.


E se l’Isola di Buss probabilmente emerse in forza di una confusione, l’Isola del Podestà deve la sua esistenza a una spudorata bugia, già dichiarata dalle circostanze del primo avvistamento dovuto infatti al Capitano Pinocchio, al comando del vascello Barone Podestà nel 1879. L’Isola del Podestà venne posizionata a 1390 km dalle coste cilene di Valparaíso almeno fino al 1935, quando l’isola sparì dalle mappe. L'unica fonte riportante l’esistenza dell’Isola di Podestà, descritta come un paradiso pieno di uccelli colorati e folleggianti in aria, si deve ad Hereward Carrington, figura quantomeno ambigua, scrittore e indagatore dei fenomeni paranormali che si occupò anche del caso di Eusapia Palladino.

La faccenda ha un suo sviluppo quando nel 2009 un gruppo di opposizione al governo cileno, con gesto provocatorio quanto artistico, fonda la Repubblica di Rino, una micronazione la cui sovranità si estende su tutte le isole non reclamate, anche e soprattutto quelle irreali. Concettualmente esiliati sulla terraferma, i cittadini di questa bizzarra e ideale Repubblica si sono dati una loro costituzione e una presidenza eletta ogni due anni. Stando al loro sito di governo ufficiale: 


L’Isola di Rino è in definitiva costituita da un gran numero di isole e scogli che esistono o esistevano una volta, ma i navigatori di allora, vuoi per rum, vuoi per errori, non annotavano bene sulla carta. Ma prima o poi potranno essere ritrovati e saranno completamente incorporati nell'Isola di Rino.


Tra le isole su cui la Repubblica di Rino estende la propria sovranità c’è anche l’Isola del Podestà, indipendentemente dal fatto che non si trovi da nessuna parte e, anzi, proprio in virtù di questa sua fantasmatica esistenza. 


Introduzione alla Cartografia del vuoto


Le isole fantasma ci raccontano soprattutto il rapporto con l’Ignoto e il tentativo secolare di venire a capo del mistero rappresentato da un mondo sconosciuto, spinto sempre più ai margini.

L'esplorazione marittima si è limitata per molto tempo, almeno fino all’inizio del XII secolo, alla navigazione costiera: oltre le Colonne d’Ercole il mondo svaniva nel caos, l’Atlantico si manifestava nella mente del marinaio come un’oscura vastità, un mondo dove tutto era possibile, spazio virtuale dove i miti e le leggende coesistevano nell’immaginario dei naviganti insieme ai resoconti di accidentali avvistamenti. 


Molto di quanto si sapeva sulle isole dell’Atlantico era stato tramandato come folklore ereditato dal passato attraverso fiabe e leggende greche e romane, la mitologia dei celti e degli antichi popoli scandinavi. La leggenda si confondeva con informazioni riportate occasionalmente da marinai che, ampliando le proprie rotte commerciali, si avventuravano sempre un po’ più lontano rispetto ai propri predecessori oppure, casualmente, si ritrovavano su un’isola sconosciuta quando la tempesta spingeva la loro nave fuori dalla rotta stabilita.
(Donald S. Johnson, Le isole fantasma)

Il mondo oltre l’Atlantico era una riserva dell’immaginazione in cui confluivano storie e miti. Quando si è cominciato a costruire navi diverse da quelle abituate alla placidità del Mediterraneo, quando i calcoli astronomici si fecero più precisi, così come gli strumenti di localizzazione più esatti, i navigatori solcarono allora le acque impossibili e cominciarono a destabilizzare la leggenda, a rimodulare la percezione del Mondo. 


Ma più della volontà di superare un limite naturale e umano di fare luce sull’Ignoto, fu il bisogno di tracciare nuove rotte commerciali che spinsero marinai e navigatori a tentare “il folle volo”. La navigazione per fini commerciali e la conseguente scoperta di terre emerse è chiaramente storia antica. Già quei portentosi navigatori dei Fenici, stando a Erodoto, circumnavigarono l’Africa e scoprirono una misteriosa isola che tennero segreta per potercisi trasferire nel malaugurato caso Cartagine fosse stata distrutta. E anche quella di Imilcone, navigatore cartaginese che si spinse fino in Britannia passando dalla costa iberica, fu una spedizione dedicata a tracciare rotte commerciali dello stagno, i cui resoconti, andati perduti e riportati da Rufo Fiesto Avienio, miravano a scoraggiare qualunque emulazione dell’impresa. A tal fine raccontavano di un mare pullulante di mostri marini e di fondali pericolosi: “Mostri di ogni genere infestano lo spazio marino, in cui si diffonde il terrore per la presenza delle belve. Tutto ciò il punico Imilcone riferiva di averlo visto e sperimentato nell’Oceano.”


Anche quando si navigò in cerca di rotte per il Catai o Zipangu (un’isola in levante, ch’è ne l’alto mare 1.500 miglia, stando a Marco Polo, il Giappone stando ai moderni atlanti) l’obiettivo principale fu quello di aumentare le rotte, commerciare spezie e sete, riempire le casse dei regni europei. 

Fino a che i viaggi sono stati brevi e lungo costa, in zone per lo più conosciute, seguendo le indicazioni dei portolani, ovvero mappe redatte sulla base delle esperienze dirette dei marinai, tenacemente pragmatici e legati a una “geografia dell’osservazione”, attenersi ai concetti di latitudine e longitudine non è stato necessario. 


Septentrionalium Terrarum descriptio, ovvero l'Artico secondo Gerardo Mercatore (1595). Nella mappa si può notare la leggendaria e inesistente isola di Frislanda.

Ma i grandi viaggi d’esplorazione atlantici ebbero bisogno di carte sempre più precise. Quello che capirono le grandi potenze europee fu che per dominare il mondo bisogna conoscerne i confini, registrarli, muoversi con coscienza nello spazio, perché l’Ignoto non è assoggettabile. 

La mappa aiuta a tracciare la rotta, a riferire la posizione di un’eventuale scoperta, dichiarare la conquista. Il sistema a griglia, ben presto votato allo scopo, pose ai cartografi di ogni tempo la problematica di stabilire, con un margine di distorsione minimo, i termini per rappresentare la sfera terrestre su un piano.  L’idea che si possa far corrispondere il mondo a un foglio di carta, non è solo un problema prettamente filosofico, sebbene fu proprio attraverso ragionamenti empirici che gli antichi pensatori tentarono di dare ordine allo spazio: valevoli furono gli sforzi di Anassimandro di Mileto, che immaginò la terra come un cilindro galleggiante e a cui si attribuisce la creazione della prima carta del mondo; o di Tolomeo, che per primo adottò il sistema di latitudine e longitudine fissando il meridiano, 0 della longitudine in corrispondenza delle mitiche Isole Fortunate o dei Beati, identificate nelle isole più a occidente allora conosciute, ovvero le Canarie.

Mentre alla corte di Ruggero II di Sicilia, il geografo arabo al-Idrisi realizzava nel 1154 la Tabula Rogeriana, un avanzatissimo planisfero con il sud posizionato in alto, il Medioevo cristiano si concentrò su mappae mundi dal carattere simbolico, capaci di trasporre l’immagine del Creato e nel contempo offrire un compendio geografico-narrativo sulle storie bibliche rappresentate. 

Nel 1585, a risolvere il problema delle corrispondenze tra la sfera e la mappa, ci pensò il fiammingo Gerhard Kremer latinizzato Gerardo Mercatore, il quale propose la sua proiezione cilindrica a esagono, appunto la Proiezione di Mercatore.


Da allora il mito e la cartografia hanno un ulteriore filo che li lega in una contingenza editoriale: sul frontespizio delle carte di Mercatore appariva Atlante, il titano che tiene sulle spalle il mondo, antonomasia di ogni raccolta cartografica da allora. 

Nell’Atlante di Mercatore molte isole apparivano che pure non erano mai esistite e molte hanno continuato a essere riportate in carte di secoli successivi, superando i decenni e i secoli, tenacemente aggrappate alla realtà nonostante la loro impossibilità di essere, la loro vocazione a non essere.


Frontespizio illustrato di Atlas sive Cosmographicae Meditationes de Fabrica Mundi et Fabricati Figura di Mercatore.

I primi marinai portoghesi e spagnoli ad avventurarsi nel grande Oceano, riferirono osservazioni e scoperte che venivano riportate sulle prime carte. La nuova percezione del mondo andava via via formandosi, coagulando prepotentemente un nuovo immaginario che avrebbe presto spazzato via il mito. 

Ma in un dato momento, i marinai potevano avvistare una stessa isola più volte credendola diversa. Gli errori, le male interpretazioni aprirono alla possibilità che nelle prime mappe coesistessero isole reali e isole fantasma. Con il crescere delle esperienze di navigazione e della conoscenza effettiva della geografia del mondo, si assistette al fenomeno per cui le isole nuove, quelle reali, si affiancarono a quelle immaginate. 


Con le isole ora ancorate nella realtà, quelle immaginarie non venivano sostituite ma semplicemente spostate ancora più a ovest, ai confini estremi del mondo conosciuto. [...] La conoscenza sempre più precisa degli arcipelaghi atlantici rendeva necessario un continuo spostamento delle mitiche isole verso ovest. Gradatamente, tuttavia, la geografia basata sulla leggenda lasciò il posto alla geografia della realtà.
Donald S. Johnson

Cristoforo Colombo contava, durante la traversata oceanica, di sostare sulla mitica Antilia, l’Isola delle Sette Città. La presenza dell’Isola al centro esatto dell’Oceano era una certezza a quelle altezze cronologiche, almeno sin dalla sua prima apparizione su una carta nel 1367.  Antilia (Anti-isola, isola opposta), per i cartografi del tempo, era un’isola di forma quadrangolare, grande quasi quanto il Portogallo. Era stata, secondo la leggenda, il rifugio di sette vescovi, fuggiti dall’invasione dei Mori in Spagna, i quali vi avrebbero fondato sette città. 

In seguito alla scoperta dell’America, cominciò a sfumare l’idea che ci potesse davvero essere da qualche parte un’isola tanto mitica. Le Sette Città sono scivolate sul continente e hanno garantito ai conquistadores città d’oro da sognare nelle giungle del Nuovo Mondo. 


La scomparsa delle isole fantasma dalle mappe, e la conquista del possibile, apre l’era del Disincanto, dà via alla Modernità. Il mondo è chiuso nella griglia di Mercatore e ci sta tutto. Ogni isola è scoperta, ogni leggenda sfatata. Navigando lungo le coste dell’Africa non si pensa più, come i geografi arabi, che il mare melmoso in cui la nave si può impantanare sia a tutti gli effetti il fango venuto su in seguito all’inabissamento di Atlantide. Con i primi abbattimenti del Meraviglioso, le isole sono scivolate ai margini delle mappe, poi, seguendo la traiettoria di un piano inclinato, sono state cancellate definitivamente dalla memoria.  Ci rimangono solo i loro nomi e le loro storie. Rintracciarle è ancora possibile, andando a ritroso tra le leggende che le hanno definite, gli errori che le hanno generate. 


L’Isola dei Demoni


Lei e suo marito sarebbero stati lasciati su un’isoletta nel mare,
 abitata solo da bestie selvagge,
 con il permesso di portare con sé ciò che era necessario
 per la loro sussistenza.

Marguerite di Navarra, Heptameron


Nel 1542 dal porto di La Rochelle, il corsaro Jean François de la Roque signore di Roberval, su incarico del re di Francia Francesco I, partiva con la sua flotta per colonizzare nuove terre. Si portava con sé Marguerite de La Rocque de Roberval, la cui parentela è fonte di dibattito: forse sorella, forse nipote, forse cugina. La nubile nobildonna, durante il tragitto s’innamorò di un ufficiale di bordo. Roberval, annebbiato da un ferocissimo sdegno religioso, scaricò Marguerite, l’amante e la balia della ragazza, ritenuta complice del vergognoso accaduto, su un’isola deserta: l’Isola dei Demoni, una misteriosa terra il cui nome si confondeva nei vaghi racconti dei pescatori di merluzzo a largo delle coste settentrionali di Terranova.


Ardue sono le prove che i tre si trovano ad affrontare una volta a terra, armati solo di quattro fucili: insediati dai demoni presenti sull’isola, si difendono come possono invocando la Vergine Maria e recitando passi del Vangelo. Nonostante i tormenti demoniaci, Marguerite rimane incinta. La masnada infernale duplicò le forze con cui mettevano a dura prova il corpo e lo spirito dei malcapitati e presto, sia il figlio che l’amante che la balia, perirono, soccombendo alla malvagità indomabile dell’isola. 

Marguerite si trova ad affrontare non solo il tormentoso pericolo dei demoni, ma anche le bestie che si affollano sull’isola, orsi “bianchi come uova”, grifoni e trichechi. 

Due anni e cinque mesi durò l’avventura solitaria di Marguerite. A salvarla un provvidenziale peschereccio che la riportò in Francia, dove la sua storia, accolta con entusiasmi e stupori, divenne ben nota nelle corti. 

La mappa del 1556 di Giacomo Gastaldi. (Memorial University/Pubblico Dominio)

L’avventurosa vicenda di Marguerite viene ascoltata anche da Margherita d’Angoulême, la regina di Navarra, che nel 1546 la inserì in una raccolta di 72 novelle ispirata al Decamerone, scritta per svago personale. Pubblicata postuma nel 1558 e nel 1559, la raccolta prenderà il nome di Heptaméron

Nella sessantasettesima novella si narrano appunto le tragiche vicende degli amanti sfortunati abbandonati sull’Isola infernale. La posizione di Marguerite e la decisione di Roberval sono differenti: in questa versione dei fatti la ragazza segue l’amante, accusato di tradimento, e sceglie di proposito di sbarcare sull’isola con lui, trasformando un’ingiusta punizione in un fulgido esempio di fedeltà coniugale. 


Ai due sfortunati amanti viene quindi permesso di scendere a terra con il necessario per la sopravvivenza, attività che si risolverà nel combattere le imperversanti belve armati di archibugio e di pietre, cibandosi delle bestie uccise e delle erbe spontanee. A tale dieta l’uomo non resiste e rende presto l’anima a Dio. Marguerite lo seppellisce in una fossa che scava il più profondamente possibile ma le bestie fiutano il corpo; così lei si arma del fedele archibugio e difende i resti del marito. Quando non è impegnata a salvarsi la vita, passa il tempo a leggere e a mantenere alto lo spirito, il quale, ci viene detto, è forte come quello degli angeli, mentre il corpo è ridotto alla più totale bestialità.

Infine un vascello di Roberval avvista la donna e si avvicina per capire in che modi si è articolata la volontà di Dio.


Marguerite de La Rocque si difende dagli attacchi degli orsi polari. (Bibliothèque et Archives nationales du Québec/Pubblico Dominio)

La fortuna letteraria della storia di Marguerite e dell’Isola dei demoni non si ferma alla regina di Navarra. André Thevet, frate francescano ed esploratore, imbarcato sulla flotta di Villegaignon (“mezzo pirata, mezzo scienziato”, stando alle parole di Stefan Zweig), nel 1555 raggiunge Baccalaos, la terra dei merluzzi, come veniva chiamata allora Terranova. Il risultato dei viaggi di Thevet si condensa nel testo Cosmographie Universelle il quale venne però giudicato come una raccolta fantasiosa, mendace e dai tratti inattendibili. Tra le cose raccontate da Thevet riaffiora nuovamente l’Isola dei Demoni, descritta in quella che è la sua caratteristica principale: “un gran clamore di voci umane, confuse e inarticolate, simili a quelle che si odono tra la folla alla fiera o al mercato”.

A ritornare idealmente sull’Isola, ci pensò Jean Alphonse, timoniere di Roberval, che nel 1544 pubblicò un resoconto dei viaggi, rinominandola Ilê de la Demoiselle, con particolare riferimento alla sfortunata vicenda di Marguerite. 


Donald S. Johnson ci rassicura sulle possibilità che ci sia, o ci sia stata, un’isola pullulante di demoni urlanti: più probabile che le grida infernali siano da attribuire alla nidificazione di centinaia di uccelli marini, come le sule, capaci di sorprendere e intimorire il marinaio che, immerso nei silenzi della navigazione, si ritrova improvvisamente di fronte a una cacofonia sonora proveniente da una terra confusa nella foschia e nella nebbia. 


Sebbene anche nel Mercatore l’Isola dei Demoni appaia nello stretto di Belle Isle, essa sparisce dalle mappe con l’aumentare dell’esplorazione del Nord Atlantico a partire dal XVII secolo. A cercarla oggi, volendo, l’Isola dei Demoni dovrebbe essere una delle isolette che si trovano di fronte alle coste dell’Isola di Terranova. Dei demoni, però, purtroppo o per fortuna, non v’è più traccia.  



Le isole dei fratelli Zeno: Frislanda ed Estotiland


Una piccola mappa della parte europea del Commonwealth britannico - diciamo dalla Scoto Scandinavia fino alla Riviera, all’Altar e alla Palermontovia - così come di gran parte degli Stati, Uniti, dall’Estoty fino al Canady e all'Argentina, sarebbe potuta essere fittamente trapunta da bandierine con la Croce Rossa smaltata che, nella Guerra dei Mondi di Aqua, ne segnavano i bivacchi.

Nabokov, Ada o dell’Ardore



Più o meno intorno al 1558, nei meandri di una soffitta veneziana o sul fondo del cassetto di mobili antichi, Nicolò Zeno riscopre quelle che riferisce essere delle lettere appartenute a due suoi avi marinai, i fratelli Antonio e l’omonimo Nicolò, i quali nel 1380 partirono per un intrepido viaggio che li portò a sperimentare peripezie atlantiche e artiche, fino a sbarcare nella stupefacente Isola di Frislanda, mai apparsa, stando ai veneziani, su altre mappe prima d’allora. I resoconti epistolari che i due Zeno fanno al terzo fratello rimasto a Venezia, Carlo, vengono raccolti dal giovane discendente della famiglia, il quale sistema, integrando dove può, vi aggiunge una mappa che produce basandosi su quanto appreso dai testi ereditati e da un originale rovinato, e infine offre alle stampe il risultato di questa sua personalissima fatica editoriale. 


I quattordici anni di viaggi incredibili raccontati nelle lettere stupirono sin da subito i veneziani e il mondo intero, in seguito a immediate traduzioni del testo anche in inglese.  Giunti a Frislanda, i fratelli Zeno si trovarono al cospetto di un misterioso sovrano, re Zichmini che, per le loro indiscutibili qualità, li pose a capo delle sue flotte con cui navigarono e conquistarono le popolazioni vicine. 


Tra le terre che compaiono nella Mappa di Zeno, vi è anche Estotiland la quale, secondo i veneziani, fu scoperta nel XIV secolo dai pescatori in grado di solcare l’Atlantico e che, spinti dal vento, erano approdati sulle spiagge di questa landa estremamente fertile e montuosa, il cui re possedeva libri in latino che non riusciva a comprendere. Secoli dopo, nel 1969, Nabokov ambienterà le vicende del suo romanzo ucronico Ada o dell’Ardore in una terra immaginaria coincidente con l’America settentrionale colonizzata dai russi e chiamata Estotiland.


Ortelio identifica Estotiland con il Labrador, sottintendendo di conseguenza come siano stati i pescatori atlantici e i veneziani a scoprire l’America settentrionale, ancor prima di Colombo. L’Inghilterra comunque non esitò a controbattere che il dominio di quelle isole era da intendersi tutto britannico. John Dee, matematico, occultista e alchimista alla corte di Elisabetta I, sostenne che, ancor prima degli Zeno, fu nientemeno Re Artù a conquistare tutte le isole settentrionali, Polo Nord compreso, e su di esse estese la sua giurisdizione. Anche, naturalmente, su Frislanda ed Estotiland che forse non sono mai esistite.



Estotiland, Frislanda e l'Isola di San Brandano come appaiono nella mappa di Ortelio (1573).

Frislanda, a differenza delle altre isole fantasma, non si sposta sulle mappe, rimane ben piantata lì dove la trovano i fratelli Zeno e dove la segnalano sulle carte per decenni: a sud dell’Islanda. Dal 1560 al 1660 Frislanda appare in tutte le mappe, compresa quella di Mercatore. 

La Mappa di Zeno venne presto messa in discussione, si evinse che cartografie precedenti riportassero similarità evidenti con quella dei fratelli veneziani e si cominciò a supporre di conseguenza che quella del giovane Zeno non fosse altro che una rielaborazione di fonti esistenti, configurandosi, secondo alcuni, come “una spregevole frode letteraria”.

Secondo fonti recenti, comparazioni, considerazioni di eventuali sviste, che prendono in esame errori di vario genere, parrebbe che gli Zeno arrivarono alle isole Fær Øer, mentre la mappa di Frislanda altro non è che una riproposizione di quella dell’Islanda.


A rianimare la questione concorrono dei ritrovamenti recenti in alcuni insediamenti inuit in Alaska, sui Monti Brooks: perle di vetro veneziane datate XV secolo. I ricercatori pensano che siano arrivate attraverso la Via della Seta e lo stretto di Bering. La datazione al radiocarbonio le fa risalire a un periodo tra il 1397 e il 1488.

L’unica spiegazione parrebbe che le perle siano arrivate sul continente americano attraverso le rotte commerciali partite da Venezia dirette in Asia, per poi, sorprendentemente, raggiungere l’America. Pare infatti difficile che siano stati i Vichinghi a portarle lì via mare, in regioni tanto remote e inarrivabili. Avrebbero potuto riuscirci dei fratelli veneziani?



Le isole bizzarre di San Brandano


Questo libro è di San Brandano che fu di Scozia oltre alle parti di Spagna, e com’elli stette sett’anni fuori dal munistero cercando le terre di promissione, cioè molte isole stranie per lo mare Ozian e su nel Paradiso Terrestre dove Iddio allogò Adamo ed Eva

La Navigazione di San Brandano

San Brandano fu un santo pellegrino proveniente dal Kerry, in Irlanda, messosi in cerca della Terra Promessa insieme a un manipolo di seguaci. A 225 anni dalla sua morte apparve un testo che ne narrava la peregrinazione marittima.


Di lui si dicono mirabilie ancor prima che nascesse nel 484: la madre ebbe una visione in cui il suo petto si faceva d’oro puro e i seni scintillavano come la neve. Quando nacque, una foschia discese in seguito al battesimo del bambino a cui venne dato il nome di Brendinus, ovvero broen (goccia) e dian (che viene dall’alto). 

Inguardabile in volto sin dalla giovinezza per via dello splendore che emanava in viso, Brandano si inserisce in una lunga fila di monaci ibernici che si spostarono sul continente per predicare e fondare monasteri. La navigatio crebbe con i secoli, divenendo un racconto straordinario capace di fondere miti omerici e virgiliani, rappresentando, a detta di alcuni, uno dei poemi ispiratori della Commedia dantesca. 


Numerose le peripezie marittime di Brandano qui narrate: l’incontro con Giuda che riposa su uno scoglio, l’avvistamento di una colonna di cristallo alta quattro metri, l’Isola di Paolo in cui un eremita viene sfamato da una lontra compiacente che gli consegna del pesce e dissetato da un rivolo che appare ogni domenica. Molte sono anche le isole bizzarre che il gruppo di eremiti scopre e visita – l’Isola delle Pecore, il Paradiso degli Uccelli, l’Isola dell’Uva – tutte disseminate in un mare di mostri, tra serpenti marini e grifoni. Lo stupore che suscita un isolario così strabiliante colpisce l’immaginazione, esalta la fantasia del lettore.


La più famosa tra le isole bizzarre, capace ancora oggi di resistere in mille forme nell’immaginario occidentale, è sicuramente quella legata all’avventura dell’Isola Pesce. 

Quando i monaci sbarcano su una strana isola senza sabbia, mettono a scaldare un paiolo sulla fiamma. L’isola, di conseguenza, si agita, prende a ondeggiare e i monaci scappano a gambe levate verso l’imbarcazione, presi alla gola da un terrore a cui non sanno dare spiegazione. Interviene allora Brandano che rende edotti i compagni: non si tratta di un’isola ma del più grande pesce che Dio ha creato. 

L'Isola-Pesce su cui San Brandano e i suoi seguaci sbarcano.

Le avventure di Brandano recuperano la tradizione celtica degli Echtrai, racconti di passaggi verso mondi sovrannaturali a cui si accedeva tramite isole o pozzi o varchi liminali di qualunque genere, e degli Immrama, racconti di viaggio a tema marittimo alla ricerca di un Altro Mondo, peripezie di isola in isola con piccole imbarcazioni. Come spiega Antonio Musarra:


Siamo di fronte a topoi diffusi dal sapore classicheggiante; traslati, tuttavia, in un sostrato cristiano, senza, per questo, rinunciare ai mirabilia: animali fantastici, fortezze incantate, fontane da cui sgorgano latte, vino o birra, saggi eremiti che popolano un ambiente prettamente insulare, che rimanda inevitabilmente a un “Altrove” la cui ricerca è lo scopo del viaggio.

Le peripezie di Brandano si inseriscono in un dato simbolico, rendendo la sua navigazione un percorso ascetico, scaglionato da precise coordinate legate alle ricorrenze rituali. Sette anni dura il viaggio di Brandano, un itinerario che si sviluppa su una traiettoria circolare: i monaci visitano le stesse isole a cadenza annuale rispettando un preciso calendario liturgico: in ogni isola i monaci trascorrono Pasqua, Pentecoste o le altre principali cerimonie cristiane. Il fine ultimo è il raggiungimento del Paradiso Terrestre, ma per arrivarci bisogna purificarsi, lo spirito necessita di penitenza. I monaci di Brandano si affidano all’immensità desolante dell’Oceano, come gli anacoreti e gli eremiti alle vaste aridità dei deserti. 


L’isola di San Brandano appare sulle mappe, spesso vicino alle isole Fortunate, in posizioni diverse, sin dai primi planisferi medievali. Alcuni la collocano vicino alle Azzorre, altri a sud-ovest di Madeira, in mezzo all’Atlantico, vicino alla Canarie.

Nel’500 appare ancora sugli atlanti di Ortelius, 1570, e in quello di Mercatore, al centro dell’Atlantico, tra l’Irlanda e Terranova. Nel 1755, una carta francese si azzarda a collocare l’Isola di Brandano nell’Oceano Indiano.

Con il tempo, L’Isola di San Brandano subisce un progressivo spostamento verso l’estremo del mondo conosciuto: venne fatta scivolare sempre più a ovest, per poi scomparire del tutto. 



Ferdinandea, l’effimera


Allora cominciai a dirle la storia dell'isola Giulia ovvero Ferdinandea, emersa da queste acque fra Sciacca e Pantelleria un secolo addietro e passa. Di sabbia fina, nera e pesante, con un monticello nel mezzo, e un laghetto d’acqua bollente nella pianura. Il mare la circondava, un mare color celeste ma untuoso come d’olio. E l’isola visse qualche tempo, poi il mare se la riprese. Un giorno riemergerà.

Bufalino, Argo il cieco


Non solo isole atlantiche fanno parte dell’isolario impossibile, anche il Mediterraneo ha contato su una piccola serie di scomparse. Una in particolare, la cui esistenza è stata persino certificata al di là di ogni dubbio con una bella bandiera piantata sul suo suolo sulfureo. I molti nomi che ha avuto, Giulia, Nerita, Corrao, Hotham, Graham, Sciacca, Ferdinandea, ne raccontano il gioco identitario e la straordinarietà che ebbe nella sua brevissima vita di appena qualche mese. Molti nomi per definire quella che per poco è stata, se mai lo è stata davvero, un’isola apparsa di fronte alle coste di Sciacca tra il giugno e il luglio del 1831.

Si sa che le dinamiche tra il dominio del mare e quello della terra vengono continuamente rinegoziate, un processo in atto del vulcanico e soprattutto in Sicilia, la quale secondo Salvatore Mazzarella è una regione del mondo in cui il Creato sembra ben lontano dall’aver trovato il suo definitivo aspetto.


Prima dell’emersione vera e inequivocabile ci furono una serie di fenomeni anticipatori. Già da fine maggio gli abitanti di Sciacca poterono registrare brontolii e strani movimenti, tra chi ne registrava la frequenza con scrupolo contabile e chi, come i pescatori che si trovarono vicino alla Secca del Corallo, assistette allo straordinario rimescolamento delle acque del mare, dando fondo a tutta un’atavica credenza popolare di racconti marinareschi, antiche paure di calamari antidiluviani, leviatani e pesci cani mostruosi, forme al Aldobrandini avvinghiatisi per risse fatali, balene bizzarre da morsi veloci.


Il gorgoglio delle acque e il sobbollimento, gli argenti che si anneriscono, le pomici nere galleggianti e i pesci morti a causa dei vapori vulcanici destano sane e irrimediabili preoccupazioni, le quali non si danno solo ai pescatori, o ai cittadini di Sciacca, osservatori sgomenti di tuoni e nauseabondi odori sulfurei, ma anche ai militari che transitano per quel tratto di mare. A luglio lo straordinario si manifesta di fronte al capitano Francesco Trefiletti, il quale colto di sorpresa durante la tratta Malta-Palermo sul suo brigantino Gustavo, stupito vide fumo venir fuori dall’acqua e, ancor più sorprendente, una colonna d’acqua di 25 metri, del diametro superiore a quello di un vascello. Il capitano Corrao del brigantino Teresina, il 10 luglio, è tra i primi a decodificare lo spettacolo insolito delle colonne di fumo e il puzzo di zolfo, repertando la nascita di un vulcano nuovissimo.


Sono invece tre colonne di fumo a preoccupare il Capitano Prospero Schiaffino della bombarda Sant’Anna partita da Talamone e diretta a Malta, il quale si convince anch’egli che quello che ha di fronte, sebbene ancora celato dal mare, altri non è che un vulcano nuovo di zecca. La fila delle osservazioni si infittisce. Ultimo viene il fuoco, osservato dal signor Vincenzo Barresi agente della Règia doganale, preda di un timore sacrosanto nel rilevare il fumo continuo e eruzioni di materia minuta e talvolta grossa, un velo d’olio sulfureo sul mare, un disgustoso odore di zolfo pesci morti, notturni guizzi di fuoco, simili a saette, e corpi infuocati.


Le acque intorno al “novello vulcano” si fanno affollate: navigli e imbarcazioni studiano il fenomeno, lo osservano da svariati punti di vista come a mettere insieme le varie prospettive del meraviglioso, pronti a rilevare qualunque anomalia e registrarla con prontezza. Capita persino che una mattina si stacchi da un veliero ligure diretto a Marsiglia un’imbarcazione su cui un biondo marinaio si mette a misurare con bussola e sestante lo spettacolo marittimo. Il solitario personaggio viene immortalato da chi lo avvista come una figura capace di esprimere un’immediata simpatia, dalla fronte spaziosa e lo sguardo azzurro, profondo, scrutatore, pieno di luce e di vita. Si tratta di Giuseppe Garibaldi, in largo anticipo sull’impresa dei Mille, di ritorno dalle peripezie greche, occupato per il momento a stupirsi del fenomeno palesatosi proprio lì davanti ai suoi occhi azzurrissimi. 


Al 12 luglio la terra è emersa, si tratta di un piccolo isolotto. Il primo studioso ad avvicinarsi è il tedesco Hoffmann, con buona pace degli scienziati siciliani. Mentre il cielo stupisce con “stranezze solari”, il crepuscolo si allunga e fenomeni derivati dalle perturbazioni vaporiche causano strane luci visibili persino da Genova, a Sciacca si propone un business di trasporti per approssimarsi all’isola. Ma una volta che l’isola è emersa ed è effettiva, un fatto concreto visibile a distanza, sorge un particolare desiderio, quello di calpestarla, metterci piede sopra. Nasce la necessità di esplorare la terra nuova. 

L’impresa viene portata a termine il 20 agosto, secondo le cronache, da un’ignota persona intelligente, che raggiunge la cima. Lo stesso giorno anche il chirurgo Osborne (la stessa persona intelligente o tutt’altro individuo? Non si sa) proveniente da Malta, sbarca e raggiunge il sommo d’una collina. Il 24 agosto è il turno di un viaggiatore inglese insieme a due saccensi. Il 25 ad approdare sono tre compari, i quali, mentre si dedicano a un picnic sulla spiaggia vulcanica, avvistano un pesce spada di 15 chili e uno sgombro di mezzo chilo arenati e, con somma sorpresa, sulla cima di una montagna, una tortorella che canta.


Camillo De Vito, L'Isola Ferdinandea.

Fatta l’isola, bisogna anche decretare a chi appartiene. La cartografia, quando non il buon senso, verrebbe in soccorso in tal caso, decretando che la vicinanza con le coste siciliane ne fanno un dominio borbonico. Ma è anche vero, sebbene messo in dubbio dal naturalista e geologo catanese Carlo Gemmellaro, che la prima bandiera a sventolare sulla superficie vulcanica di Ferdinandea fu l’Union Jack inglese, ben piantata dal capitano Senhouse, il quale il 20 agosto si affrettò anche a nominare il sulfureo terreno Isola di Graham. 


Nominare qualcosa vuol dire anche possederla. E comunque, in anticipo, con atto sovrano del 17 agosto 1831 Ferdinando II aveva già fatto la sua mossa e, dato al nuovo vulcano sorto del canale Sicilia il nome di Ferdinandea, raccoglie una suggestione adulatoria di Gemmellaro che così l’aveva nominata, annettendola al proprio regno. 


Ci furono altre proposte, diverse e internazionali, le ragioni furono molte: Hotam, Corrao, Proserpina, Nerita. Tanti nomi per definire un’isola a malapena, una landa in fase di disgregamento. Perché intanto che le dispute internazionali cercano di definire a chi appartenga Ferdinandea questa, con le dovute premure, comincia a sfaldarsi. Anche i francesi vorranno dire la loro, così una spedizione scientifica a bordo del La Flèche raggiunge l’isola il 27 settembre. Si tratta, tra gli altri, di Constant Prévost, geologo dell’Università di Parigi, e Edmond Joinville, pittore. I francesi sbarcano e analizzano, rilevano, studiano in lungo e in largo quel che dell’isola resta e ne predicono l’inabissamento. Quando poi lasciano l’isola, e nel frattempo danno il loro contributo all’esubero nominale chiamandola Iulia, per via del mese in cui è sorta dalle acque (acque internazionali, si sottintende) piantano un cartello a futura memoria ("Isola Iulia – i sigg. Constant Prévost, professore di geologia all'Università di Parigi – Edmond Joinville, pittore 27, 28, 29 settembre 1831") e, soprattutto, il tricolore di Francia, sebbene, si curerà di precisare Prévost in un rapporto, non per mere questioni di possesso (possesso poi di cosa?) ma per certificare che quando un evento stimola la ricerca e la scienza, i francesi li puoi trovare certamente in prima linea. 

Ferdinando II però non può esimersi dal far sventolare bandiera Borbone sulle minimali altezze dell’Isola Nuova. Manda a tal fine il comandante Corrao, il quale sbarca e compie la sua missione rendendo giustizia al dominio del suo re. 


Ma come scrive Mazzarella, a risolvere le questioni politiche intervenne una più alta Legislazione: la stessa forza, terrestre o celeste che fosse, che l’aveva innalzata la inabissò. 


La fase terminale dell’isola si può riassumere in tre osservazioni. La prima si deve al vaporetto Francesco I che arriva il 27 ottobre nei pressi di Ferdinandea e ne dichiara la riduzione irreversibile. La seconda appare il 20 novembre agli occhi di un viaggiatore d’eccezione, sir Walter Scott che con l’isola condivide il destino funesto. In viaggio in Italia per motivi di salute a bordo di un incrociatore messogli a disposizione dal governo britannico, lo scrittore scozzese approderà sull’isola a cavallo di un marinaio, a causa della pessima condizione fisica. Lo sguardo che Walter Scott lancia alle desolanti e scuoranti fattezze di Ferdinandea gli offrono l’immagine di un’oscura anteprima del proprio destino che lo scrittore avrà modo di sperimentare giusto l’anno successivo, quando morirà a Londra. 

A concludere la cronaca della disfatta, quindi, è il brigantino Achille, nella persona del capitano Allotta, che ne certifica la scomparsa non riconoscendo vestigio alcuno dell’isola inabissata. 


Oggi l’isola (non) sorge più o meno otto metri sott’acqua, corrispondente sulle mappe alla Secca di Graham. Lì sotto, Ferdinandea riposa.



Zanara, l’isola che manca


C’è n’è un’altra, ancora. Misteriosa come le sorelle, ancora più sfuggente. Con Ferdinandea condivide, per alcuni, il destino abissale; è stata terra visitata da un santo come le isole della navigatio o come tali isole, forse, ha subito uno slittamento cartografico che l’ha fatta apparire lì dove non è mai stata. Si tratta di Zanara, isola che non c’è più.


Teoricamente, stando alle carte, l’isola di Zanara (o Zanera) dovrebbe trovarsi dirimpetto al Monte Argentario, tra l’Isola del Giglio e Giannutri, in un’area che i marinai locali conoscono come Secca delle Vedove o delle Sette Vedove. Un luogo di mare pericoloso, facile al naufragio, che ha messo in difficoltà marinai esperti per secoli, chiamato così per i continui annientamenti delle barche partenopee che da Napoli, nel’700, andavano al Giglio e all’Argentario a pescare coralli.


Ma se le due isole sorelle sono un fatto concreto e inappuntabile – basta indirizzare lo sguardo verso il mare per avvistarle – non lo è la presenza di Zanara, che difatti in quel punto dove si cerca, non la si trova. 


Zanara (in basso) tra Giglio e Giannutri.

Ultima isola dell’Arcipelago toscano, Zanara appare per la prima volta sull’Atlante di Mercatore del 1584. Nella Tusciae antiquae typus, di Abraham Ortelius, precedente di cinque anni quella di Mercatore, di Zanara non c’è traccia, così come in una mappa di Matteo Greteur di nove anni dopo: anche lì l’isola non appare. Se si tratta di errore, è un errore che ha avuto fortuna, poiché Zanara è rimasta nella penna dei cartografi del Seicento, la si può inseguire attraverso le carte che nei decenni la ripetono, come un’eco cartografica. Là si può rintracciare in questo suo percorso decennale e c’è chi l’ha fatto come il capitano Daniele Busetto, che ne ha riportato le peregrinazioni cartografiche dalla sua prima apparizione all’ultima.


Essa compare infatti nel 1589 nella carta Tuscia Vel Ethruria di Zacharias Heyns, mentre nel 1606 Baptista van Doetecum la raffigura nella Italiae Nova et exacta descriptio. Nel 1618 è riportata nella Description du Cartier de Siene - Senese Territorium di Petrus Bertius, mentre nel 1620 nella Carta dello Stato del Papa e del Duca di Toscana di Pietro Todeschi. Nel 1630 Zanara appare nella Tuscia Episcupatus di Jan Evertsen, nel 1636 nella carta Stato della Chiesa con la Toscana di Hendrick Hondius. Matthäus Merian la riporta su Topographa Italiae tratta da Itinerarium Italiae del 1640, ed è anche nella carta Stato della Chiesa con la Toscana di Johannes Janssonius, e nell’Itinerarium Italiae Nova Antiqua di Martin Zeiller. Nel 1642, Giovanni Antonio Magini la ritrae nella carta Stato della Chiesa. Nel 1644, Jodocus Hondius la fa apparire nella carta Stato della Chiesa con la Toscana.

Nel 1649, il francese Philippe Briet, la riporta sulla carta Les Terres de l’Eglise et la Toscane, appare poi nelle carte di Henricus Hondius e di nuovo di Philippe Briet, Les Terres de L’Eglise et la Toscana

Nel 1663 è riportata nella carta dell’edizione latina del Theatrum Orbis Terrarum, sive Atlas Novus di Willem Janszoon Blaeu che la raffigura nel 1665 anche nella mappa Stato della Chiesa con la Toscana.

Quindi nella Tusciae Antique del 1705 di Pierre Mortier, poi nella Nuova mappa dell’Italia del 1714 di Herman Moll, e sulla carta Les Estats de l’Eglise et de Toscane nel 1719 di Nicolas De Fer.


L’ultima apparizione di Zanara risale al 1720 su Antiqua Italia di Pieter Van der Aa. Dopodiché l’isola scompare.


Si potrebbe parlare di una lunga lista di superficialità, di un’isola nata non in forza di spinte geologiche o divine ma per la forza altrettanto inevitabile dell’errore e della svista, una terra fatta non di graniti o calcari, ma di inchiostro e carta.


L’errore o l’invenzione di Mercatore ha voluto che un’isola apparisse per decenni sulle mappe senza che nessuno potesse problematizzare più di troppo l’evento. La cartografia europea ha lasciato una memoria falsata di un’isola che non c’è, ma la tradizione popolare successiva ha cristallizzato il mito inserendola addirittura nella vita di San Mamiliano, l’evangelizzatore della Maremma. 


Difficile rintracciare una certezza che esuli dai testi principali della sua agiografia, anche perché la figura del Santo di Montecristo si confonde con omonimi precedenti e con altre figure monastiche. Quello che si evince e si riassume, rileggendo le fonti agiografiche che ne descrivono la Passione (in particolare la Passio Sentiae, la Passio Nymphae e Vita Sancti Mamiliani), è la storia del vescovo di Palermo e della sua peregrinazione in fuga dalle devastazioni dei vandali di Genserico. Esiliati in Africa e salpati in cerca di salvezza, Mamiliano e i suoi seguaci raggiungono la Sardegna dove si interfacciano con una popolazione che venera a tal punto Mamiliano da forzarlo alla convivenza. Di nuovo in fuga, Mamiliano salpa verso Montegiove (Montis Iovis) un’isola deserta dell’arcipelago Toscano. Durante il viaggio sosta a Turaria (secondo alcuni l’isola sarda di Tavolara), dove riesce a trovare un passaggio per Montegiove. Mamiliano conquista la vetta dell’isola e la rinomina Montecristo, sconfigge un drago infestante una grotta e accoglie i devoti che, attirati dalle sue prodigiose avventure, accorrono sull’isola.

Alla morte, i suoi discepoli trasportano il corpo del santo al Giglio. Stando a una leggenda dei marinai gigliesi, venne predetto dal Santo in persona agli abitanti dell’isola che al momento della morte di Mamiliano una nube scura (o una fiammata) sarebbe stata visibile sulle vette di Montecristo. Purtroppo, la voce si sparse e quando i gigliesi avvistarono il segno celeste, raggiunsero Montecristo per recuperare le spoglie del santo ma se ne poterono portare via solo una parte, poiché raggiunti dagli Elbani  reclamanti anch’essi il possesso del corpo del santo. Il Giglio, è effettivamente custode, in una teca antropomorfa dentro la Chiesa di San Pietro Apostolo di Giglio Castello, dell’ulna del braccio destro del santo, non strappata però alle mani degli Elbani ma donata alla chiesa insieme ad altri oggetti sacri nel 1725 dal segretario del Papa Innocenzo XIII.  


Cune Paolicchi, dando credito a una tradizione orale dei marinai gigliesi, nella sua Storia dell’Isola del Giglio, sovrappone Tunari (o Tanara) a Zanara; recupera inoltre l’ipotesi di una secca sottomarina che ai tempi delle invasioni barbariche poteva configurarsi terra emersa e momentaneo rifugio di Mamiliano, e che, in prima battuta, la tradizione orale trasformò in mitica isola e, secondariamente, la mano dell’incisore in isola fantasma.


Forse quella che oggi è una secca sottomarina era al tempo delle invasioni barbariche un’isola ancora emersa e si prestò a momentaneo rifugio di S. Mamiliano e de suoi seguaci, come si prestarono tutte le isole e soprattutto quelle disabitate, per sfuggire ai barbari, che giunti a cavallo e col carreggio, non avevano né navi, né pratica di navigazione. E allora l’errore si spiegherebbe così. L’incisore, che certamente non andò sui posti, disegnò una cosa non vista, basandosi sulla tradizione orale e scritta e altrettanto fece lo storico del’700.

La sosta di San Mamiliano su Zanara è una leggenda posteriore che più che confermarci l’esistenza dell’isola, ci dice quanto questa si trovi esattamente dove dovrebbe solo per chi la cerca. In generale, le isole dell’arcipelago toscano sono teatro di leggende e dicerie, la stessa reliquia di San Mamiliano al Giglio, stando ai racconti, fece il miracolo di respingere l’invasione dei pirati saraceni nel 1799. A San Mamiliano, inoltre, è legata una delle leggende che ha avuto enorme fortuna letteraria, ovvero quella del tesoro di Montecristo che Dumas fece trovare al suo vendicativo Conte. Il fantomatico tesoro di San Mamiliano, tramandato oralmente e cercato per secoli nelle vicinanze della sua chiesa su Montecristo, viene ritrovato nel 2004. Ma anche il tesoro, come l’isola di Zanara, non era lì dove lo si cercava con tanta convinzione. Le 498 monete d’oro zecchino di circa 4,5 grammi, risalenti a una parabola di tempo che ha visto tramontare l’Impero Romano e l’invasione longobarda (“da Onorio a Romolo Augusto”), coniate nelle zecche di Salonicco, Ravenna, Roma, Milano e Arles vennero ritrovate, durante dei lavori di ristrutturazione, sotto il pavimento della Chiesa di San Mamiliano – secondo quanto riportato correttamente da alcune voci – ma non sull’isola, bensì a Sovana, sulla terraferma.


Che Mamiliano sia sbarcato su Zanara, che Zanara esista o meno, poco importa.  Resta, dove l’isola manca, uno spazio dell’immaginazione capace di far volgere lo sguardo, di intravedere l’impossibile. A chiudere i discorsi, potrebbe intervenire il Dictionnaire Geographique Universel del 1701 che ci chiarisce come Zanara non è che un altro nome dell’isola sarda dell’Asinara, la cui assonanza fonetica ci spinge quasi a confermare che i cartografi europei, Mercatore per primo, impossibilitati a verificare con i propri occhi, reiterano l’errore e spostarono Zanara oltre 140 miglia nautiche di distanza, lasciandola lì, dove non avrebbe dovuto essere, per un secolo. 


Zanara come appare nella mappa di Willem Janszoon Blaeu nel 1635.

A ogni modo, Zanara rientra di diritto in questo arcipelago impossibile che abbiamo cercato di evocare, poiché qualunque siano le loro origini e i loro destini, tutte queste isole indicano la rotta verso nuove direzioni dell’immaginario. E sebbene lontane, o forse proprio per questo, ancora oggi se ne indovinano forme e dimensioni, e addirittura i suoni che potrebbero evocare. Ogni isola fantasma ci chiama, come se a ogni loro riva ci attendesse un dio sconosciuto, una Calipso disperata o un Prospero incantatore, come se anche solo tendendo a esse, si potesse sperimentare la più straordinaria delle peripezie.


Disinnescato il Meraviglioso coi viaggi di scoperta, ai confini delle mappe il fantastico permane, in uno spazio indefinito tra le dimensioni del reale, tra le pieghe di un mondo euclideo in cui si intravede la porta d’accesso di un Universo pensato come narrazione: è esattamente lì che puntiamo la bussola, mentre a disegnare ulteriori coordinate impossibili già si avvistano le prime isole prodotte dall’intelligenza artificiale, come l’Isola di Morbella, generata dall’algoritmo e richiestissima dai turisti che la vorrebbero visitare. E oltre ogni isola che possiamo idealmente raggiungere, o a cui possiamo tendere, più lontana di tutte le isole fantasma, oltre ogni linea d’orizzonte, ce n’è sempre un’altra, l’ultima, che sfugge imperterrita allo sguardo e alla mappa. 

Stando al poeta, è la più bella di tutte: è quella che, nonostante gli sforzi, non si trova mai ma che garantisce al viaggio una meta e all’avventura di iniziare.



Bibliografia principale

Le Isole Fantasma, Donald S. Johnson, Piemme, 2001

L'Isola che non c'è. Geografie immaginarie tra Mediterraneo e Atlantico, Antonio Musarra, Il Mulino, 2023

Eptamerone, Margherita d'Angoulême

La navigazione di San Brandano, A cura di Alberto Magnani, Sellerio, 1992

Dell'isola Ferdinandea e di altre cose, Salvatore Mazzarella, Sellerio, 2012

Storia dell'Isola del Giglio, Cune Paolicchi, Grafica Toscana, 1977





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