PALAZZO ZUCCARI, ROMA
- Zanara
- 19 ago
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Aggiornamento: 4 giorni fa

Avete dunque una casa?
- Casa Zuccari: domus aurea.
- Alla Trinità de' Monti? Voi felice!
- Perché felice?
- Perché voi abitate in un luogo ch'io prediligo.
- V'è raccolta, è vero? come un'essenza in un vaso, tutta la sovrana dolcezza di Roma.
D'Annunzio - Il Piacere
Una bocca infernale
Sul finire del Cinquecento il re di Spagna, Filippo II, chiama a sé il manierista Federico Zuccari, ospitandolo per i successivi tre anni nella capitale del Regno come pittore di corte. Tornato a Roma nel 1591, con i risparmi e il guadagno ottenuti, Zuccari acquista un terreno a Trinità de Monti, un appezzamento sui resti degli horti di Lucullo. Inizia dunque a costruire un palazzetto.
Per il nuovo tracciato urbanistico congegnato da Sisto V, volto all'ammodernamento topografico della città, Trinità dei Monti rappresentava un cardine fondamentale: da qui si biforcano la via Gregoriana e la via Sistina, ed è nel punto culminante del bivio che Zuccari acquista il lotto triangolare tra le due nuove strade aperte, allora, tra i vigneti romani e getta le basi della sua opera architettonica.
Zuccari pensa al palazzo come una struttura tripartita da tre zone collegate le une alle altre ma autonome: lo studio, l’abitazione e il giardino. Lo si sorprende, il palazzetto, ancora in fase di costruzione nell’incisione di Antonio Tempesta, il Tempestino, del 1593.

…e dalle due piazze il romorìo confuso e continuo, salendo alla Trinità de’ Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
L’elemento architettonico più riconoscibile del palazzo sono le cornici del portone, il cosiddetto Mascherone, e le finestre affacciate su via Gregoriana, facce mostruose di demoni a bocca spalancata, originariamente pensate dallo stesso Zuccari come ingresso al giardino visibile da strada e, grazie al netto contrasto tra i mascheroni e l’idilliaca visione del giardino di ginepri e mortelle, particolare in grado di suscitare contrasti stupefacenti da chi avrebbe osservato dalla strada verso l’interno. Il passaggio oltre la soglia infernale avrebbe poi garantito l’accesso al paradiso naturale, permettendo al visitatore un’ideale trascendenza, una volta varcato il confine dell’abitazione.
Questo “scherzo architettonico” parrebbe formulato dallo Zuccari dando seguito all'ispirazione ottenuta dall’incontro con le creature scolpite dal geniale scultore Pirro Ligorio per il duca Vicino Orsini nel Giardino dei Mostri di Bomarzo ai tempi della sua permanenza nella vicina Caprarola ai servizi del cardinale Farnese. Quel che è certo è che durante il suo periodo madrileno, Zuccari realizzò un’intera raccolta di illustrazioni della Commedia dove particolarmente significativa risulta la porta infernale della città di Dite. Viene facile pensare che quella bocca demoniaca, emersa così facilmente tra le pieghe dell’ispirazione, gli fosse sembrata poi adatta per essere concretizzata sulla pietra scolpita del Mascherone del suo palazzo.

Zuccari muore, senza vedere terminati i lavori del suo palazzo, nel 1609 e la proprietà dell’immobile viene trasferita per sua volontà all’Accademia di San Luca per essere usata come spazio utile per giovani artisti.

echi d'annunziani di fine secolo
Egli usciva dalla casa Zuccari, a piedi. Era un tramonto paonazzo e cinereo, un po’ lugubre, che a poco a poco si stendeva su Roma come un velario greve.
D'Annunzio - Il Piacere
Molte le persone, reali o immaginate, che ne hanno abitato le stanze e modificato strutturalmente gli ambienti: l’ex regina Casimira di Polonia, venuta a Roma con Livio Odescalchi, ad esempio, talmente poco parsimoniosa che nel 1799 dovette fuggire dai creditori e tornare in Francia alla corte del Re Sole. Il palazzo divenne allora una locanda, utile per i giovani europei che avessero voluto far tappa a Roma per il loro Grand Tour.
Nel 1889 Gabriele D'Annunzio, nel romanzo "Il Piacere", vi ambienta le decadenti vicende di Andrea Sperelli e dei suoi amori sfortunati.

Ed è proprio nelle sale di Palazzo Zuccari, riconsegnato al lettore in salsa fin de siècle, che Sperelli attende all’inizio del romanzo di riconciliarsi con Elena Muti, amata d’un tempo perduto e che qui ritorna dopo due anni a mettere in chiaro le cose, ovvero gli estremi della loro relazione, mentre l’anno muore e il “sole di San Silvestro” sorprende Roma con una falsa primavera. Per Elena quell’amore è andato e per sempre; dunque, ricevuto “il gran commiato", a Sperelli non resta che incassare e gettarsi nel gorgo delle passioni, rispecchiando e riproponendo i moti biografici e personali del D’Annunzio ventunenne giornalista a Roma, pronto a sperimentare i piaceri della “vita orizzontale” della Capitale. Andrea Sperelli ama, sperpera, si incapriccia, duella e viene ferito, si fa accudire dalla cugina nella villa di Schifanoja, e si innamora di Maria Ferres, moglie del Ministro del Guatemala, immagine specchiata e fantasmatica dell’amata perduta. Figure dissimili apparentemente, l’una passionale che ama l’erotico Goethe, e l’altra immagine di una pura spiritualità vicina al malinconico Shelley, eppure la contrapposizione non è mai così assoluta, e la duplicità lascia anche spazio alla contaminazione dei caratteri e, infine, prelude al capitombolo sentimentale del grande sgarbo che Sperelli riserverà nei confronti di Maria.
L’idea di Elena, infatti, infesta il cuore di Sperelli, inevitabile il suo pensiero, inevitabili gli incontri nella Roma della mondanità. Per indole facile al tormento amoroso, e al colmo d’un momento d’intimità con Maria, il decadente conticino la chiama con il nome dell’altra. Tutto finisce, l'umiliazione supera pure il dolce ricordo delle passeggiate sulla tomba di Shelley o le letture di Byron.

Il romanzo termina a giugno con la vendita all’asta dei beni del marito di Maria, rovinatosi al gioco malriuscito del baro. Andrea acquista un armadio appartenuto alla donna e lo fa portare dai facchini sulle scale di Palazzo Zuccari, seguendo il trasporto come si fa con un feretro per l’ultimo viaggio.
Andrea fuggì, quasi folle. Prese la via del Quirinale, discese per le Quattro Fontane, rasentò i cancelli del palazzo Barberini che mandava dalle vetrate baleni; giunse al palazzo Zuccari.
I facchini scaricavano i mobili da un carretto, vociando. Alcuni di costoro portavano già l'armario su per la scala, faticosamente. Egli entrò. Come l'armario occupava tutta la larghezza, egli non poté passare oltre. Seguì, piano piano, di gradino in gradino, fin dentro la casa.
Palazzo Zuccari per Sperelli assume i connotati d’una proiezione della sua interiorità. Spazio d’isolamento estetico d’un soggetto in crisi e fedele solo all’ideale del Bello, si tramuta in asfissiante palcoscenico d’una languida nevrosi.
Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, stabilì il suo home nel palazzo Zuccari alla Trinità de' Monti, su quel dilettoso tepidario cattolico dove l'ombra dell'obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore. Passò tutto il mese di ottobre tra le cure degli addobbi; poi, quando le stanze furono ornate e pronte, ebbe nella nuova casa alcuni giorni d'invincibile tristezza. Era una estate di San Martino, una primavera de' morti, grave e soave, in cui Roma adagiavasi, tutta quanta d'oro come una città dell'Estremo Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come i cieli che si specchiano ne' mari australi.
Torturato dalle proprie magagne emotive e dai tormenti estetici, lontano dal dolore, che ci separa dal sé, ma pienamente coinvolto dallo struggimento, ovvero il voluttuoso turbine della soggettività, per Sperelli il paesaggio diviene un simbolo, un emblema, un segno, una scorta che Io guidava a traverso il laberinto interiore. Segrete affinità egli scopriva tra la vita apparente delle cose e l'intima vita de suoi desideri e de' suoi ricordi.

Ma quella di Sperelli verso i luoghi che abita è una proiezione a senso unico, un contagio morboso. Egli getta il sé sugli ambienti ma non riceve nulla in cambio, non si lascia permeare, non è uno scambio. La Bellezza, o l’idea di essa, è nascosta e celata dalle demoniache bocche del Palazzo, superate le quali non v’è l’armonioso giardino sperato da Zuccari, ma un interno sterile, morto, asfissiato da tappezzerie oscure e lumi soffusi, da lampade votive, da ogni oggetto riconducibile alla liturgia del culto di sé del conte.
Le collezioni, i libri, le porcellane e le statue, tutto richiama all’arte, al sentimento d’estasi che dovrebbe ispirare con una concentrazione che toglie il respiro. Palazzo Zuccari diviene il museo della malinconica solitudine di Sperelli spesa “in mezzo alle sue cose come un sacerdote nel tempio” dove “ogni cosa è simbolo, ogni ricordo una reliquia”.
Rientrando nel suo appartamento della casa Zuccari, nel prezioso e delizioso buen retiro, provò un piacere straordinario. Gli parve di ritrovare in quelle stanze qualche parte di sé, qualche cosa che gli mancava. Il luogo non era quasi in nulla mutato. Tutto, intorno, conservava ancóra, per lui, quella inesprimibile apparenza di vita che acquistano gli oggetti materiali tra mezzo a cui l'uomo ha lungamente amato, sognato, goduto e sofferto.
Tutt’altra funzione ha avuto nella realtà Palazzo Zuccari solo pochi anni dopo la pubblicazione del Piacere. Nel 1904, l’immobile viene acquistato dalla scrittrice e collezionista tedesca Henriette Hertz. La Hertz aveva già garantito al Palazzo la fama di salotto culturale romano, di cui d’Annunzio tra gli altri era visitatore assiduo, e garantirà allo stabile di proseguire i suoi virtuosi intenti concependo l’idea di realizzare un centro dedicato agli studi artistici. Nacque così nel 1913 la Bibliotheca Hertziana, istituto di ricerca di Storia dell’arte italiana rinascimentale e romana, capace di attirare studiosi internazionali e luogo teso a un rapporto diverso con l’altro, non ragnatela d’un ragno-dandy ma luogo di conoscenza del mondo, di proiezione verso l’altro, di contaminazione culturale.
Oggi, se si è accademici e studiosi di storia dell’arte è possibile visitare la biblioteca, altrimenti si deve attendere uno di quei casi in cui, per eventi speciali, il Mascherone spalanchi la bocca-porta al pubblico. Allora si può entrare, gettare uno sguardo, meravigliarsi della fototeca, della collezione libraria, della sontuosità che emanano questi spazi. O fare solamente capolino e immaginare scenari di fine secolo e giocare a intravedere, tra quelle stanze immaginate, un affranto conte che ha amato tanto, al culmine di passioni sublimi e di slanci ideali, ma amando sempre a suo modo e comunque quasi sempre male.
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