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CASCATE DEL MULINO, SATURNIA

  • Immagine del redattore: Zanara
    Zanara
  • 14 giu
  • Tempo di lettura: 22 min


Le Acque di Saturno


Secondo Varrone e Macrobio il nome di Saturno deriva dal verbo serere (seminare), e ciò lo determina incontrovertibilmente come dio agricolo: all’uomo Saturno offrì i segreti dell'agricoltura, e non sorprenda né diverta se uno dei suoi appellativi era conseguentemente Stercutius, in riferimento al letame che fertilizza il campo. 

Lo si ricorda in figura di vecchio, detronizzato e in fuga falce alla mano. Accolto da Giano, il dio bifronte, regnò con lui sul Lazio e il suo regno fu di gloria mai vista (saturnia regna). Fu l’età dell’oro: era pace tra gli uomini, le messi davano spighe di un giallo intenso e mai visto, i frutti della terra apparivano senza che alcun lavoro li sollecitasse. 

L’agricoltura portò con sé la civiltà, il disordine lasciò il posto alla costruzione di un equilibrio sociale, alla legge. Saturnia Tellus, ovvero la terra di Saturno, l’agricoltura come principio regolatore del caos.  

Nell’Eneide, Virgilio lo eterna nei versi immortali:


Primo venne Saturno dall'etereo Olimpo,

fuggendo le armi di Giove ed esule del regno usurpato.

Raccolse la stirpe indocile e dispersa per gli alti monti,

e diede leggi e volle che si chiamassero Lazio

le terre nella cui custodia era vissuto nascosto. 


Sotto quel re vi fu il secolo d'oro, che narrano;

così reggeva i popoli in placida pace;

finché poco a poco seguì un'età peggiore, che mutava

in peggio il colore, e la furia della guerra e del desiderio di possesso.


L’età peggiore chiude la parabola felice. Si dice che Saturno ebbe compreso, con la chiaroveggenza del Dio, che l’Umanità fosse giunta alla sua indegna fine, troppo il male, troppi gli uomini violenti, e a violenza, secondo una logica tutta divina, rispose con violenza. Ma la violenza del Dio è catastrofe, è distruzione.

Ed è dalle mani del dio furioso che fu lanciata la folgore che, schiantata al suolo, fece sgorgare l’acqua sulfurea di Saturnia, così dicono, così riferisco. Punizione che fu prodigio e fortuna di oggi. Vanno infatti i bagnanti alla sorgente termale, immersi nei 37 gradi e mezzo imposti dal dio, ad affollarsi nelle pozze sulfuree, sguazzano tra le Terme o scivolano seguendo il corso del caldo fiume fino alla Cascata del Mulino.


Prodigio non di numi ma geologico quello che effettivamente si manifesta a Saturnia. L’acqua termale che dalle sorgenti arriva fino al Mulino viene su dalle cavernose intimità dell’Amiata, una specie di selvoso nume tutelare, per dirla con lo scrittore Alfio Cavoli, passato a essere da eruttante e tonitruante vulcano a fonte di queste, e molte altre, meraviglie naturali. L’acqua impiega 40 anni nei meandri amiatini, mineralizzandosi nelle profondità, assorbendo anidride carbonica che scarica poi sul travertino a 200 metri di profondità, il quale si disfa, si scioglie sprigiona zolfo e calcio e solfati e magnesio, e quindi il flusso risale, trascinando gas e vitamine alla luce del sole saturnino.  


E scorre, questo fiume prodigioso, da millenni, ininterrotto, instancabile, invidia dei suoi vicini che si dedicano il riposo delle secche estive, di esaurimenti, di portate altalenanti. Dalla vasca termale, si incanala nel torrente del Gorello defluendo attraverso i canneti, frange alle Cascate, prosegue sinuoso circoscrivendo i campi coltivati nel torrente Stellata e infine si immette nel fiume Albegna fino alle Saline, al mare, al tutto. 


Le acque termali sono habitat ideale per i piccoli vermi rossi dei pescatori (blood worms li chiamano gli inglesi), che altro non sono che larve di chironomidi, piccoli insetti simili a zanzare ma, a discapito del nome albionico, senza alcuna sete di sangue. Abituate alla scarsità di ossigeno delle acque sulfuree, una volta diventati adulti questi piccoli insetti si mostrano in tutta la loro tranquillità: sembrano pregare, le mani giunte sopra il capo, non provocano dolore all’uomo. 


Oltre ai piccoli insetti, le pozze del Gorello hanno garantito il benessere di molti e altri animali di ben altra stazza nel corso degli anni. Erano acque taumaturgiche, soprattutto per le greggi e le mandrie, le quali vi venivano immerse a cura d’ogni morbo. Che il Bagno di Saturnia fosse più utile alle bestie che ai cristiani par difficile da credere a vedere i bagnanti di oggi. Ma così fu. Le sue acque, avendo fama di straordinarie guaritrici, richiamavano intere greggi di pecore e mandrie bovine, nonché asini, muli e cavalli. 


Il Pecci, ci offre una visione datata 1758 dello scenario che l’intrepido viandante si sarebbe potuto trovare davanti una volta giunto di fronte alle sorgenti termali:


Consiste esso in un Vascone, e in due contigui Bagnetti. L'acqua sorge dal fondo del Vascone in polle copiose, e vigorose, passa in parte nei Bagnetti, e tutta poi si riunisce in una fossa di scarico, e va a muovere un non lontano mulino, di cui i legni e le intravature, che toccano l'acqua, tutte le pietre, tutte le piante, sulle quali essa passa, sono coperte di tartaro bianco.

E ancora:


L'acqua di questo bagno fa andare due molini, che uno è della comunità di Manciano, dato a linea ai Marchesi Ximenes e l'altro è della comunità di Saturnia, allineato ai Medesimi Marchesi che, coll'altre entrate della comunità, ne ritrae circa 16 o 18 moggia ogn'anno.

Una foto del Denci delle Cascate del Gorello.
Una foto del Denci delle Cascate del Gorello.

Oltre alle bestie, anche gli uomini del passato si immergevano nelle acque sante. Il 26 luglio, per Sant’Anna, santa protettrice dei trebbiatori


si attaccava i bovi al carro, e prima che sorgesse l'aurora si partiva alla volta delle cascate di Saturnia. Era una sorta di vacanza obbligata, una specie di lungo viaggio verso la purificazione igienica; ma anche verso la purificazione religiosa, per rispettare la festa della patrona, quando la trebbiatrice sull'aia doveva tacere; e dovevano farlo il suo fischio o la sua sirena, incaricati di scandire i tempi della giornata lavorativa.

Il rispetto era assoluto, altrimenti si sarebbe incorsi nelle ire della Santa; il mancato riposo durante il giorno a lei dedicato, infatti, avrebbe portato a nefaste conseguenze. Ne sono testimonianza le storie sui laghi dell’Accesa e del Lago Scuro di Manciano: i trebbiatori che non posavano la falce, il Signore li precipitava nel sottosuolo con tutta l’aia, i buoi, gli attrezzi da lavoro nelle profondità della terra, facendo risalire al loro posto un lago a coprire il ricordo del peccato. 


Al di là delle leggende nere, il paesaggio di Saturnia offre l’immagine di uno stupore primordiale, suggestionando il visitatore con il pensiero che i tempi, in questo angolo di mondo, non siano mai troppo perduti, che si siano arenati da qualche parte. 


Ma se c’è stata un’Arcadia qui, al di là delle manifestazioni naturali, dove la si rintraccia oggi, in quali anfratti s’è andata a ricoverare l’eco di antichi fasti, di splendori antidiluviani?

Ne attraversiamo il presente come un rabdomante, cercando i segni di quello che fu aggrappandoci alle storie che si sono incagliate in questo spazio di terra come il naufrago allo scoglio, tra storia e diceria.


Il cambiamento di sicuro c’è stato. Il Santi, ad esempio, ci riferisce com'è cambiata, a detta sua, nel tempo la posizione delle sorgenti sulfuree:


L'aspetto dei travertini mi fece giustamente, io credo, pensare, che in tempi antichissimi, ed anteriori alla fondazione di Saturnia sorgesse sull'alta, e pianeggiante cima di quel colle l'acqua del Bagno attuale, che quivi accumulando incrostazioni, e sedimenti venisse a formar quelle masse di travertino, le quali superioreggiando, e dilatandosi finalmente ne accecarono le Sorgenti, e ne ostrussero il corso: che così obbligata a farsi strada altrove dové sgorgare nella pianura aggiacente, ove trovasi adesso, per quindi pure subir col tempo nuove ostruzioni, e nuovi cambiamenti di sito.

Nel secondo dopoguerra Alfio Cavoli frequenta lo stabilimento termale descrivendo così quel tempo ancora sospeso:


Era il periodo più godurioso e più ghiotto, in fatto di bellezza primitiva e di serenità dell'ambiente, quando il bell'edificio in travertino era circondato all'infinito dalla campagna deserta; e sui suoi verdi prati aprivano i loro ombrelli pittoreschi, annosi pini; quando un grosso esemplare di cane da pastore maremmano poteva aggirarsi indisturbato fra la rara clientela senza il rischio che potesse disturbare.

Cavoli ci racconta del factotum claudicante Nensi, di una cuoca eccezionale capace di cucinare incredibili arrosti di faraona. 

Quando diventa amministratore della Società Terme di Saturnia Arturo Osio, produttore cinematografico, molti personaggi del cinema cominciano a frequentare Saturnia: Walter Chiari e Anita Ekberg, la quale passa dall’immergersi nelle acque cittadine della fontana di Trevi in quelle certo più salutari di Saturnia, così come  assiduo frequentatore delle terme era Farouk I il Re d'Egitto, accompagnato dall’inseparabile bionda Capece Minutolo, destituito da un gruppo di giovani ufficiali rivoluzionari e esiliatosi in Italia. Alla fine d'ogni pranzo, ci confessa il Cavoli, si faceva servire dal cameriere Oreste dodici uova lesse, il che non ci sorprende pensando al fatto che sarebbe poi morto a Roma dopo una cena di 24 portate.


E sulle magiche proprietà taumaturgiche di cui sopra, valga un aneddoto riportato sempre dal Cavoli che ci racconta di come la vasca di Belzebù, come la chiamò il giornalista livornese Aldo Santini, produsse un miracolo animalesco di significativa portata. 


I fratelli Menichetti, una famiglia originaria di Manciano, che dedicò la vita all'ippica e produsse un fantino del valore di Joris Menichetti – definito «il più grande ostacolista di tutti i tempi» – ebbero dei cavalli infortunati piuttosto seriamente. Sarebbero stati abbattuti se non avessero avuto la fortuna di trovarsi vicino alle Terme di Saturnia. I loro padroni, in un tentativo disperato di non perderli, li portarono per vari giorni a camminare nelle pozze del "Gorello". Non ci si crederebbe, ma guarirono davvero e tornarono a correre e a mietere successi.

Saturnini, qui ante Aurini vocabantur 


Saturnia conserva il mito di una fondazione leggendaria, antica almeno quanto i Pelasgi, fenomenali costruttori di mura – che ergevano incastrando a secco pietra a pietra – che oggi chiamiamo ciclopiche e che hanno dato forza al pensiero che si fossero preoccupati di fortificare Saturnia in tempi remoti. Molto meno leggendaria la realtà, che è deludente per definizione, ma non per questo meno interessante. Furono gli etruschi ad abitare per primi il piano, e ebbero buone ragioni per fissare a quelle coordinate la prima pietra, come chiarisce il Cavoli, dato che le ragioni per indovinare un futuro benessere c’erano tutte: 


c'era un paesaggio solare e grandioso, tale da soddisfare il loro innato gusto estetico; c'era l'argilla per plasmare i loro oggetti domestici, le loro urne (thaura), i loro ossuari (murs); c'era il "cappellaccio" di travertino per costruire e fasciare le pareti delle loro tombe (su-thi); c'erano perfino sorgenti termali dalle straordinarie acque copiose ed eccezionalmente curative, le cui qualità taumaturgiche furono subito riconosciute dai loro sacerdoti (cechase).

Il nome della Saturnia Etrusca è incerto, si dibatte nella triade Urna-Urina-Aurinia.  Quel che è certo è che furono loro a chiudere il paese in una poderosa cinta muraria assecondando il naturale andamento della rupe.


Saturnia in una foto d'epoca.
Saturnia in una foto d'epoca.

Si è creduto che nei primi secoli della sua esistenza, Saturnia dipendesse da Caletra, città d’oro e d'avorio (ed entrambe da Vulci, importante città della dodecapoli etrusca). 

Cent’anni fiorì Caletra prima del declino. A cercarla oggi, non la si trova più, la si indovina a Marsiliana, immaginandola lì, dove i Principi Corsini hanno eretto la torre del Castello o nei colli vicini. Forse è lì sotto che riposa. 


Heba, città prossima che in quel periodo comincia a fiorire e a richiamare i caletrani, invitandoli a lavorare nelle proprie miniere, toglie forza a Caletra e in questo gioco di energie che si rimescolano, di forze che vengono meno, allo spopolamento di Caletra, è Saturnia che emerge, controllando tutti quei territori tra il Sacro Monte dell'Amiata e il mare, prima dell’avvento romano. Che non tardò ad arrivare.


I Romani, impegnati nella lotta contro Pirro, si insediarono nel cuore dell'Etruria e diedero battaglia anche a Vulci nel buon nome di Marte. Una pace stipulata con la città etrusca obbligò questi a cedere l’area dell’Argentario (dove nel 273 a.C. fu fondata la colonia latina di Cosa), e le valli dei fiumi Fiora e Albegna. 

Il passo sicuro del soldato romano attraversò le piane saturnine a partire dal 183 a.C., quando i triumviri Q. Fabio Labeone, G. Afranio Stellione e T. Sempronio Gracco (padre dei famosi tribuni della plebe) vi dedussero la colonia civium romanorum. È da questi tre figuri che si vorrebbero far derivare i toponimi locali Monte Labbro, Stellata e Semproniano.


Nel 280 a.C, la città si fece prefettura con tanto di prefetto militare, amministrava la giustizia e si tenevano i mercati. Disponeva così di una certa amministrazione autonoma, ma non aveva magistrati propri. Ogni anno vi erano inviati prefetti muniti di istruzioni sul come fare a regolare le questioni giuridiche.


L’agro caletrano, e così tutta la Maremma tosco-laziale era l’infinito granaio di Roma, riforniva l’Urbe della spiga con cui fare il pane per buona parte delle sue necessità. 

Fortuna di Saturnia che fu, dunque, è così nel II sec. a.C. che che la città si espanse conobbe la pace e conobbe la guerra: nell’80 a.C. Silla sconfisse Mario le cui soldatesche si rifugiarono in città. Fu l’assedio, l’espugnazione, la totale distruzione dei fedeli di Mario. 

Si ricostruì pazientemente, tenacemente, si ampliarono strade, si costruì la collettività. 


L'Arco Senese di Porta Romana, una delle porte d'acceso all'antico abitato.
L'Arco Senese di Porta Romana, una delle porte d'acceso all'antico abitato.

Terra abituata al disastro quella saturnina: impensabile che i Goti di Ataulfo non ne abbiano approfittato, contribuendo allo sfacelo. Il secolo è il V dopo Cristo, l’anno il 441. Di ritorno dal saccheggio di Roma sulle vie della Gallia, i Goti portarono sciagura per tutta la costa tirrenica. L’ordalia si spinse fino nell'entroterra: c’è chi afferma che anche Saturnia fu colpita. Così come la colpirono i saraceni di Abdul Kassem, che la ridussero in rovina. 


Dopo di che, il diluvio. 


La storia riprende il filo quando i conti Aldobrandeschi, antenati del Gran Tosco, indefessi costruttori di castelli (ne possedevano quanti erano i giorni dell’anno, si dice) si trasferirono a Sovana abbandonando Roselle devastata dai saraceni, eressero torri, fortificazioni e castelli. Quando si spartirono le proprietà mantennero indivisa la proprietà delle terme, affinché ognuno ci si potesse fare il bagno.


Margherita Aldobrandeschi, ultima della casata, fu a Saturnia, si dice, che diede alla luce la figlia Anastasia. Poi fu il tempo di Orvieto e di Siena di contribuire alle devastazioni. Bastò un assedio per condurre al tavolo della resa: l'atto di sottomissione al Comune di Orvieto fu firmato il 13 giugno 1293. Sei anni dopo, un’aggressione subita ai danni di un ambasciatore, Jacopo di Rinaldo, a opera di Ugolinuccio Salinguerra delle Rocchette e di Calcagno da Sovana, valse il pretesto ai Senesi: Saturnia fu data alle fiamme. L’anno successivo, ormai invasa dai banditi che tra le rovine cittadine avevano fatto campo, i Senesi la distrussero una volta per tutte. 


Tra il XIII e il XV secolo, Saturnia e il territorio circostante furono oggetto di continue lotte tra potenze locali come Siena, Orvieto e Perugia, per il controllo del feudo sovanese e soprattutto delle preziose sorgenti termali dei Bagni di Saturnia.

I continui rovesciamenti degli scenari politici, i passaggi di dominio, l’instabilità del controllo sul territorio gettarono Saturnia in un vortice di malagestione, impoverimento dovuto alle ambizioni dei signori feudali.

Nel 1416 i Senesi mandarono a Saturnia due maestri muratori a sistemare la rocca. Solo che mancavano gli abitanti, i quali si erano stancati di abitare un fronte di guerra. E allora il paese fu invaso da masnade di briganti. 

Due anni dopo i Senesi cercarono di ristabilire l’ordine, diserbarono quella malerba brigantesca e, per impedirne il ritorno, abbatterono mura, case e tutto quanto. 

Saturnia rimase una muta desolazione, invasa dalla tramontana amiatina d’inverno e d’estate un cumulo di ombre che si confondono nell’aria avvelenata dalla malaria palustre. 


Nunc seges est, Ubi Saturnia fuit


Ancora i Senesi, signori di questa Maremma disastrata con cui non sapevano cosa fare, capirono infine la necessità del ripopolamento che contrastasse la malora. Scelsero di favorire l'immigrazione di gente contadina, nella fattispecie dando credito a tre romagnoli (Luca di Marco, Giovanni di Ventura e Mariotto di Francesco) che nel 1461 chiesero al Concistoro di Siena la concessione della distrutta città maremmana per potervisi insediare unitamente a numerosi conterranei per ricostruire, ridare forza alle campagne. Duecento famiglie si dichiararono così sottoposte a Siena, giurarono di rispettarne le leggi. 


Terra di immigrazioni, la Maremma. In cambio i romagnoli ebbero la ricostruzione della rocca e della cinta muraria a carico della Repubblica, ebbero cinquecento scudi (da restituirsi a rate), staia, sale e frumenti agli abitanti del paese rinvigorito, l’esenzione per tutti dal pagamento delle tasse per almeno quindici anni (che vennero poi prorogati visto il successo dell’iniziativa) e di essere esonerati per venticinque anni da ogni gabella in cambio dei lavori di bonifica del Bagno.


I nuovi abitanti di Saturnia ricevettero il sigillo municipale in cui era effigiato il dio Saturno che recava la falce nella mano destra e un mazzo di spighe nella sinistra. 


Lo stemma di Saturnia nel manoscritto "Piante e armi della Città e Castelli di Siena", conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (XVI secolo).
Lo stemma di Saturnia nel manoscritto "Piante e armi della Città e Castelli di Siena", conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (XVI secolo).

Saturnia rinasceva ancora. Gli abitanti si difesero contro masnade desiderose delle loro ricchezze, nulla poterono però contro l’ambizione di Carlo V, il quale il 17 aprile del 1555 fece cadere Siena. 


Il palazzo Ximenes-Panciatichi, oggi sede del ristorante I due Cippi.
Il palazzo Ximenes-Panciatichi, oggi sede del ristorante I due Cippi.

Saturnia e le sue terre, nel 1593, furono infeudate da Ferdinando I de Medici al marchese Sebastiano Ximenes d'Aragona.

Nel 1611, per un canone annuo di 665 scudi, Cosimo II de Medici concesse allo Ximenes tutte le entrate derivanti dalla Comunità saturnina, comprese quelle dell'Osteria del Bagno. Con lo Ximenes (il quale pur avendo casa nella piazza del borgo, dove oggi si trova il ristorante i due Cippi, se ne stava solitamente a Firenze) il disastro fu totale: nel 1640 Saturnia contava 50 abitanti, probabilmente non tutti nel centro cittadino ma nelle campagne. 


Saturnia, dopo Ximenes, toccò per via matrimoniale a Ferdinando Panciatichi Ximenes d'Aragona, che non si preoccupò molto del paese, intento a dare lustro al più benvoluto castello di Sammezzano. 


Nel 1676, Bartolomeo Gherardini, incaricato di visitare le terre dello Stato Senese e di riferirne la situazione al Granduca di Toscana, così descrisse Saturnia:


 È situata in un monte scoperto, il quale però dentro al circuito delle sue mura si vede tutto piano. È cinta da mura assai alte, parte delle quali sono fatte manualmente con i loro merli, e parte dalla natura con massi e dirupi non inferiori d'altezza. Il circuito è grande, girando più di due miglia, ma non abitato, non essendovi dentro più che diciotto fuochi (48 persone, n. dell'a), e trentasei case disabitate e casalini in gran spazio di paese, che si lavora calcolandosi che dentro Saturnia si faccia una sementa di moggia otto. Dentro il recinto delle mura vi è una rocca, che ha quattro rivellini, riguardante la pianura verso Sovana, Manciano e Monte Merano; questa è assai grande e dentro vi sono quarantacinque casalini disfatti. Non sono in Saturnia abitazioni di comodità, o apparenza, solo quella del Signore che neanco può dirsi commoda.

E più avanti:


L'aria è pessima, e nello Stato di Siena non vi è la peggiore. Non vi sono benestanti, et uno solo haverà venti bestie vaccine, nel resto tutti sono povera gente ed attendono alla campagna.

Dopo oltre un secolo e mezzo, visitò Saturnia l’esploratore e console inglese George Dennis e la trovò sull'orlo della estinzione. 


La moderna Saturnia è rappresentativa di quella antica esclusivamente per il nome. Occupa una frazione solamente dell'area originale ed è un miserabile luoghettaccio con una chiesa, alcuni tuguri e soltanto una casa decente, quella del Marchese Panciatichi Ximenes, un nobile di sangue aragonese, la cui famiglia ha posseduto questo maniero negli ultimi 250 anni. Sarebbe sciocco aspettarsi una locanda in un posto del genere. C'è comunque quella che è chiamata osteria, ma uno sguardo all'interno mi conferma tutto ciò che avevo sentito dire dei suoi orrori e mi convince a non cercare alloggio in quel posto.

La fine del declino fu il 1865, nel momento in cui il pitiglianese Bernardino Ciacci acquistò dalla discendenza dei Panciatichi i possedimenti saturnini. Ciacci trovò Saturnia abitata da lavoratori di passaggio, ostello dei pastori casentinesi, tappa delle loro transumanze. E le ridiede nuova vita. 


Porta Fiorentina in una foto d'epoca.
Porta Fiorentina in una foto d'epoca.

La città dei morti


Sopra la terra dove camminano i vivi, si trova una città parallela, quella silenziosa dei morti.

Gioia dei tombaroli, profanatori secolari di tombe, le necropoli saturnine sono tumuli muti oggi, in passato ultimo riposo di popoli andati, poi asilo di pecore e maiali, hanno eruttato monili e gioielli antichi, come per un muto segreto tra i due mondi che solo un cercatore di vuoti o un aratro svela. Nelle profondità i nuovi inquilini del contemporaneo, i saturnini, fino a qualche decennio fa, ci hanno fatto le cantine. Oggi danno asilo a volpi e istrici. 

Quando gli Aurini abitavano il piano di travertino su cui svetta oggi il paese di Saturnia, era a Satres che dedicavano i doni della terra, bagnati dalla pallida luce di Tit, la luna e scaldato da Usil, il sole, amavano nel nome di Turan, godevano dell’ebrezza che gli donava Fufluns, pregavano i muti spazi dove regnava Selva. 

E nelle necropoli si dormiva il sonno eterno garantito dal dio nero Soranus. 


Nel 1847, come già accennato, a secoli dalla scomparsa degli etruschi, Saturnia e le sue necropoli furono visitate dal vicepresidente dell'Istituto di Archeologia a Roma, l’etruscologo George Dennis, il quale scortato dalla guida locale Domenico Lepri, vi scoprì tombe innumerevoli: 


Blocchi e lastre di travertino erano un po’ ovunque, sparsi o ammucchiati nei campi. Tutte erano state devastate, solo alcune erano rimaste pressoché intatte, tanto da dare un'idea sufficientemente esatta del loro primitivo aspetto.

All’alba Dennis guadò l’Albegna e, percorso un miglio, raggiunse i campi arati disseminati di frammenti di ceramica, confusi con pietre e lastre. Lì riposavano gli antichi abitanti di Saturnia dentro strutture che riconobbe come le più primitive e rozze che si potessero immaginare, simili a quelle che un uomo selvaggio costruirebbe nel suo primo contatto con la civiltà, emergendo dalla sua caverna.

Esse erano

camere quadrangolari, scavate a pochi piedi sotto la superficie, foderate da rozze lastre di pietra disposte verticalmente, una per lato, e coperte da due enormi lastre appoggiate l’una contro l’altra a formare un rudimentale spiovente; oppure da un’unica lastra di dimensioni colossali, inclinata leggermente, apparentemente per favorire il deflusso dell’acqua piovana. Nessuno scalpello ha toccato queste masse grezze, così come furono staccate dalla roccia madre, con bordi irregolari e privi di forma; se le superfici appaiono un po’ lisce, è solo per la tendenza del travertino a spaccarsi in forme lamellari. 

Dennis rimase affascinato dalle tombe, arrivando a riflettere, per via di certe scorciatoie del pensiero, sulla somiglianza tra i tumuli e i cromlech della sua terra, che secondo alcuni avrebbero potuto anche essere altari druidici creati per far defluire il sangue dei sacrifici, tracciando archeologiche corrispondenze tra i residui saturnini e ritrovamento dei monumenti sepolcrali come il Kit’s Cotty House costruito da antiche comunità pastorali subito dopo l’introduzione dell’agricoltura in Gran Bretagna. 

L’inclinazione, non utile a far drenare il sangue dei sacrificati quanto più precisamente l’acqua piovana, dava forma a strutture di una semplicità sbalordente, primitiva, che qualunque civiltà primordiale avrebbe potuto mettere in piedi, sfruttando lo stesso sistema di cui si serve un bambino per costruire una casa di carta.



Nell'estate del 1968 anche lo scrittore Alfio Cavoli visitava i sepolcreti saturnini, notando, più di un secolo dopo l’inglese, l’interrotto sonno degli etruschi, la dispersione del loro retaggio, la devastazione dei sepolcreti. 


Robuste querce vi affondano le possenti radici. L'erba, che li avvolge a primavera, inaridisce ai soli martellanti dell'estate per restituirli allo sguardo dei rari visitatori romantici assetati di antiche suggestioni. Uno dei due ha la presunzione di assomigliare ad un piccolo dolmen. Ed è per questo che polarizza le maggiori attenzioni.

La zona del puntone, un’area cespugliosa, dalla superficie costellata di pietre, negata ad ogni coltura, raccoglie le ultime testimonianze rimaste. 


Di quelle specie di dolmen sepolcrali, molte ce ne sono nei dintorni, spuntano dalla terra, danno alloggio a greggi di pecore. Altrove resti di tumoli, solleticando l’immagine di una campagna costellata da innumerevoli calotte di terra.

Quanti sono? non si sa, forse migliaia. Sono sopravvissute solo quelle del Puntone. 


Quindi Cavoli si sofferma a raccontare la tipologia delle tombe più antiche, che così riassumiamo: una fossa profonda circa due metri, rivestita di lastre di travertino verticali. I sepolcri a due loculi erano sormontati da una lastra al centro più alta delle laterali, sulla quale si appoggiavano i lastroni di travertino per formare il tetto a capanna. A volte l’accesso alla camera sepolcrale era possibile grazie al dromos, un corridoio stretto e lungo circa tre metri. Le tombe, ricoperte di terra, apparivano come semi calotte sferiche. 


Tornarci oggi è toccare con mano una disfatta a cui ha contribuito il tempo, certo, che tutto livella e polverizza, ma anche l’incuria dell’uomo, non meno dannosa. 


Eppure, nel silenzio tombale si scopre una tenace bellezza. Così ce la ricorda Cavoli, quando sottolinea come tutto il fiorire che da quelle parti prende vita nel periodo primaverile è soverchiante, nel momento di splendore dei sicomori, il sacro albero con cui gli egizi costruivano i loro sarcofagi e che, tra le querce centenarie, vigilano ancora l’antico cimitero di Saturnia, alberi della morte – dunque – ma le cui fioriture, di un inarrivabile soavità naturalistica, addolciscono, al Puntone di Saturnia, la delusione archeologica.


Et in Saturnia Ego


Saturnia appare oggi svettante dalla sua mensola di travertino su cui si appoggia, inspirando, come si è detto e come ha detto e ripetuto il Cavoli, attraverso la sua  immagine serena, qualcosa di solitario e di silente, tale da restituirla nel pensiero ai primordi delle sue origini misteriose e da suscitare nell'animo profonde suggestioni di tempi perduti.

Il suo aspetto rupestre, in uno spazio arioso di campi permeato di dolcezza virgiliana suscita arcadici furori, permette allo sguardo di conquistarsi piano piano l’orizzonte, sprofondando quell’oltre che funge da fondale al vasto scenario, ovvero le grigie alture sempronie e rocchigiane che lievitano con vigore verso la cuspide davidica del monte Labbro e le prominenze selvose del gigante amiatino.


Nicolosi la descrive così ne La Montagna Maremmana:


L'aspetto di Saturnia è dei più impressionanti e di una terribile bellezza. Nella conca pianeggiante uno smisurato masso di travertino roccioso e dirupato si insinua come un formidabile cuneo tra l'Albegna e la Stellata. I rovi e gli arbusti selvaggi gli fanno una folta cintura di verde: in alto dei massi ciclopici e nudi e degli avanzi di mura guerriere lo coronano in un disordine di cataclisma... Il silenzio è vasto e profondo. Maggio soltanto fa cinguettare gli uccelli nel fitto della macchia, poi col crescere del sole e l'arroventarsi della pietra anche quel canto scema, si perde in un sommesso bisbiglio, cade del tutto, affogato nel silenzio opprimente. Tutto intorno è montagna e solitudine.

Gli fa eco ancora Alfio Cavoli, quando scrive: 


Qui, nel seno di roccia, aduggiati dopo il meriggio dalla rupe, vecchi olivi contorti effondono un senso di arcaica quiete; qui l'adunca e lancinante marruca si accompagna al vaporoso asparago selvatico per conferire all'ambiente un sapore aspro di Maremma; qui, esaltati alla vista dalle dimensioni e dal colore del masso calcareo, commisti alle pietre grigie della quattrocentesca fortificazione senese, spiccano i blocchi poligonali che antichi popoli sistemarono sull'orlo della vasta mensola di travertino a difesa della città.

Arrivando al paese da via Aurinia, si gode d’una distesa di oliveti immersi in un’atmosfera di pace agitata solo dalle fughe di bestie nascoste e dal meticoloso mestiere degli insetti, fino a giungere al centro di piazza Vittorio Veneto, dove l’orecchio recupera il suono di voce umana. 

Passeggiando nella piazza oggi e tenendo fede a un’atmosfera tramandata dal Nicolosi, ci si può domandare dove sia quella piccola voce di bimbo che piagnucola instancabile sullo stesso tono, dov’è il silenzio grave di cimitero?  Il senso di disagio è dissolto, i pastori sono lontani o quasi spariti e ci si adombra sulle panchine, sulla piazza ricostruita, allo scroscio della fontana di travertino fatta da Anichini, una ninfa bronzea scolpita da Arnaldo Mazzanti che si bagna beata, sottolineando come gli antichi dei non siano mai andati troppo lontani.

 

Visione dall'alto di Piazza Vittorio Veneto.
Visione dall'alto di Piazza Vittorio Veneto.

Bastano pochi passi per ritrovarsi al cospetto dell’arco senese di Porta Romana, dove scorgere le antiche mura etrusche poligonali e un tratto della via Clodia che univa Roma all’Etruria. Di porte Saturnia ne ha o ne ha avute cinque: Porta Romana, appunto, a mezzogiorno, proprio sotto il castello Ciacci; Porta di Fonte Buia a settentrione; Porta Fiorentina a levante, da cui una strada si allunga diramandosi verso Semproniano e Sovana; la quarta a ponente nei pressi delle rovine della chiesa di San Biagio; infine una quinta porta, supposta dal Pasqui, non lontano dall’oliveto del Marruchetone, chiamata Porta di Fonte Cenciola o dell’Inferno. 


Dalle cinque porte scendevano altrettante strade nella vallata circostante e si irradiavano nel territorio alla volta dei centri vicini: Sovana, Statonia, Castro, Vulci, Heba, Ghiaccio Forte, Caletra. 


Ma per completare la visita di Saturnia, bisogna tornare al centro del paese attraverso via Mazzini. Si trova qui una vecchia conserva d’acqua scavata nel travertino, collegata al castellum aquarum della rocca. 

Stando nei pressi, a tendere bene l’orecchio a favore di vento par di sentire ancora suonare l’Olifante. La canzone d’Orlando che attraversa l’Italia intera pure qui fa il suo giro. Di quel paladino sopraffatto, la memoria popolare ha dato corpo e vita a infinite storie che fluiscono per lo stivale: una di esse si è incagliata anche a Saturnia. Racconta la voce popolare di Orlando che arrivato a Saturnia insieme a Rinaldo diretti a Parigi, sostarono sui Poggi. D’un tratto la sparizione di Rinaldo, finito chissà dove, mette in allarme Orlando che lo va a cercare a Saturnia. Ma i cancelli chiusi lo fermano; allora Orlando getta dall’altra parte tutto il cavallo e poi lo segue con un salto. Il cavallo atterra e lascia il segno dello zoccolo. All’interno delle mura trova una guerriglia in cui si getta a capofitto, ma più nemici abbatte e più questi si rialzano. Il paladino scopre ben presto il loro prodigioso segreto: una vecchia medica le ferite con un pignattino colmo d’acqua ai cavalieri abbattuti dal francese e questi vivificavano. Allora Orlando con un colpo di spada trancia in due la vecchia, conficca la spada nel bagno dove l’acqua sorge e grida il suo anatema: «Bagno che di dentro sorte fora, che tu possa medicà raspo e rogna!».

L’acqua sprofonda nei meandri del travertino e risbuca al piano. 

Orlando allora scova e si infila in una galleria dove vede una bizzarra collezione di statue di cavalieri, di uomini e di cavalli. Una donna prova a incantarlo ma Orlando non si incanta, afferra Durlindana e si prepara a menare il fendente fatale, quando quella gli corre alle ginocchia. Orlando la grazia e prosegue nella sua ricognizione e ritrova finalmente Rinaldo imbalsamato da una fattura d’amore, congelato con tutto il cavallo, una delle tante statue della galleria. Allora Orlando torna alle sue forti maniere e con un colpo taglia una gamba alla donna, in realtà una vecchia strega tutta bolle. Riavuto il senno di Rinaldo, il paladino mette tutto a ferro e fuoco. 


Il Bagno Secco.
Il Bagno Secco.

Scesi al piano i due paladini incontrano il maomettiano Gradasso, il quale li affronta scegliendo come primo avversario Rinaldo, ma si dà presto alla fuga. Ritornato alla carica, a Gradasso tocca battersi con Orlando, ma questa volta la sconfitta pare ancora più dura e Gradasso deve fuggire lasciando tutto indietro, cavalli e vettovaglie. 


Tutto questo ce lo confermano Marino Corridori, e Asio Rossi rispettivamente classe 1911 e 1922, interrogati da Roberti Ferretti. Una variazione della stessa ce la racconta Tebaldo Serafini, classe 1908:


Allora, Orlando, trovò 'na vecchia e li disse, dice: «Ma com'è che qua - dice - più che se ne ferisce - dice - più che ne viene di gente? - dice - sai dimmelo?». «Eh - dice - se mi salvi.. [...] la vita - dice - te lo dico». Dice: «La vita io te la salvo se tu ti battezzi..». E allora, questa vecchia.. per avere la vita salva e altro-chessia, disse '1 segreto.. che dentro le mura di Saturnia c'era questa vasca o bagno, come si vòl dire, che chi entrava... [] in questa vasca, risortiva sanato.
Allora Orlando disse al suo cavallo... Il suo cavallo li parlò, li disse: «Attaccati Orlando che io salto le mura!». E allora quando che fu Orlando dentro le mura, prese la spada, Il la mise in questa vasca del bagno di Saturnia e disse:
«[...] Bagno che sei dentro le mura, vai fòra! Che non sia abile altro che a guarire raspo e rogna!»...
E allora vogliono di che dove oggi si trova 'i Bagno di Saturnia, sia quel luogo dove arrivò l'acqua lanciata dalla spada di Orlando.  

Storie che circolano, come l’acqua sotterranea, storie che spariscono. Storie che però non defluiscono, che mai se ne vanno davvero. Oggi l’acqua magica di Saturnia non resuscita i morti, non toglie la rogna dalle greggi, ma si offre al turista che vi si immerge, giunto da ogni parte del mondo, in fuga dalle complicanze del moderno vivere.

E a riemergere è ancora una memoria, di un 6 maggio lontano, ai tempi delle fiere, quando il paese convitava le popolazioni maremmane e Saturnia poteva rivivere il suo tempo di dominio:


Salgono i tori poderosi dai pascoli lungo l'Ombrone; Marsiliana invia le sue pecore dai velli pregiati; le cavalle ed i puledri delle più belle razze maremmane vi convengono da Campagnatico e da Grosseto, da Val di Fiora e dal Chiarone; i bovi, maestosi come monumenti, la fanno irta delle loro corna lunate; la secolare ricchezza della Maremma affluisce tutta alla sua antica capitale. Allora fra le poche case, sorge improvvisa una nuova città di tela e di legname, l'animazione dei contratti agita la folla che s'aggira numerosa per vendere e per comprare tra il puzzo acre di fritto ed il fumo denso delle cucine all'aperto. Per un giorno Saturnia regna ancora sovrana.

Saturnia sovrana del tempo sospeso. Saturno, Belzebù, Orlando, gli antichi dei. Da qualche parte si vedono, inclinando lo sguardo. Saturnia li ha introiettati, celati. Alle volte, nel fumo solforoso che si invola in certe mattine invernali dalle pozze del Gorello, e che avvolge l’aria come un sudario, si può intravedere un gioco di luci che richiama alla mente antiche guerriglie, fauci mostruose, divinità iraconde, esploratori di tombe come il Dennis che si estasia di fronte ai monoliti primordiali o scrittori come il Cavoli che l’hanno studiata, camminata, compresa e che sono diventati quindi parti di lei. E in quel gioco di luce si apprende lo scherzo che fa il tempo quando collassa e pare aggrapparsi alle rocce, al travertino, ai fossi della campagna e non vuole più passare. 



Bibliografia essenziale

Alfio Cavoli, Profilo di una città etrusca: Saturnia, Tellini, 1980.

George Dennis, Città e necropoli d'Etruria, 1883.

C.A. Nicolosi, La Montagna Maremmana, 1911.

Roberto Ferretti, Fiabe e Storie della Maremma, Effigi, 2010.


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