Per certe inaspettate deviazioni di percorso, nel maggio del’24 mi trovavo nel sud della Francia, in quella Camargue che pare tanto una maremma (ogni posto solcato da cavalieri e allagato dalle paludi è una maremma, mi ha detto un giorno Piergiorgio Zotti).
In quel periodo Saintes-Maries-de-la-Mer è presa d'assalto dalle rondini e dai gitani, o meglio, dalle comunità della gens du voyage (Manouches, Coradores, Sinti e Rom) in pellegrinaggio per venerare Sara la Nera, e battezzare in suo nome i loro figli.
BREVE STORIA DI DUE PELLEGRINI: LA SANTA E LA BESTIA
Il paese si chiama come si chiama grazie alle sante Maria Salomé e Maria Jacobé, le quali sbarcarono in Francia portando con loro la serva Sara, venerata come una santa dai gitani, seppur mai canonizzata ufficialmente. Il grido dei fedeli risuona comunque nella navata della chiesa e la sua statua e quella delle Marie vengono scortate fino al mare: “Vive les Saintes Maries! Vive la Sainte Sarah!”
Il villaggio si anima, i suonatori si esibiscono ovunque, i gardians (praticamente i loro butteri) accompagnano le processioni per le stradine di case bianche come il manto dei loro cavalli.
Nella cripta della chiesa del villaggio si trova la statua di Sara la Nera. Là dentro le candele e i sospiri della folla toglievano l'ossigeno. Ho visto mani carezzare gli occhi della santa, segnarle la fronte, e così ho fatto anche io. Uomini, donne e bambini le si facevano a fianco, posando per una foto con la statua, baciandole i lembi del drappo azzurro che la ricopre.
Nella navata, sulla cassa delle Sante Marie ho visto anziane chinare il capo e tendere i palmi all'altare, pregando mute o in lacrime, così ho fatto anche io. E sarà stato per la suggestione (ogni sentimento religioso non può prescindere da un qualunque tipo di suggestione) se, per un attimo, il respiro mi si è fatto profondo.
Di nuovo in strada, ho seguito il flusso di gente che mi ha portato fino al mare, da dove, così dicono, le sante sono arrivate. I gardians, figli spirituali del Marchese Folco de Baroncelli che la Camargue l’ha amata e forse inventata, vi si tuffavano fino ai fianchi dei cavalli.
Più o meno in quelle stesse acque, poco prima dell’arrivo delle sante, viveva un tempo la temibile Tarasca.
Incoraggiato da una dama di Nives, “ricca e probabilmente ugonotta”, Eugenio Montale, nel giugno del ’54, solcava penna alla mano le stesse latitudini in cui, settant'anni dopo, mi trovavo io. Di fronte alla vastità camarghese, scrisse:
La Camargo occupa nella geografia letteraria francese il posto che da noi tennero certi luoghi della campagna Toscana e della Maremma. “Si va in Camargo” per scrivere qualche racconto strapaesano o per assistere alla timbratura dei tori o per inforcare qualche discendente degli antichi cavalli saraceni; ma soprattutto si vive in Camargo per ritemprarsi al contatto di una natura primigenia dove la vita è ancora, secondo la frase di Blake [...], il matrimonio del cielo e dell’inferno.
Venivo anche io in Camargue, dunque, ospitato in un mas bianchissimo, la cui stalla faceva ombra alla terra battuta e nei cui meandri le rondini impazzivano in piroette da maestri. Ad attendermi, mano tesa e sorriso da indovinare, la signora Patel, proprietaria del maneggio. Prima ha tentato di vendermi una cena a orari improbabili, dopodiché, al mio incauto rifiuto (arduo sarebbe stato più tardi sfamarmi nella desolazione camarghese) ha cercato di stupirmi. Mi ha preceduto in una vecchia torretta, unica verticalità nel complesso di caseggiati bassi, tutte stalle riconsiderate a camere, che ci circondava. Lì, mi ha offerto la visione al massimo grado di questa terra.
Madame Pastel mi ha raccontato che la Camargue sprofonda nelle acque almeno dai tempi del Diluvio, e pare che mai si sia asciugata. Tutto quello che si vede è dominio dell'acqua: la pianura alluvionale, i banchi di sabbia e le paludi coperte dai canneti, le vaste distese lagunari (che chiamano étangs), le coltivazioni di vino, le cui vigne succhiano linfa dal terreno e godono del sole camarghese, offrendo ai calici il rosé di cui vanno fieri. “Terra di riporto accumulata dai rabbiosi capricci del Rodano,” il suo delta, che qui sfocia nel Mediterraneo, esaurisce la corsa di questo fiume nato svizzero, il quale dopo aver attraversato la Francia, si apre in due rami, Grand Rhône e Petit Rhône, appena superata Arles, cingendo con le due braccia questa landa impregnata.
La Camargue è in definitiva un’isola, “i cui confini mutarono nei secoli secondo gli umori del suo fluviale creatore”. Una distesa annegata, riparo di uomini da secoli, le prime tribù che l’hanno popolata, occupandone le vastità acquose, ci hanno visto lungo. Qua tutto sprofonda in un senso di malinconia, che raggiunge l'apice quando il sole si moltiplica attraverso i cento specchi dei pantani.
Arles, porta d’accesso a questo mondo sommerso, splende ancora dei fasti romani, fiera del suo anfiteatro, il più grande della Gallia, arena per tori, gloria della tauromachia.
Sono zone a cui i legionari smobilitati dedicavano gli anni del ritiro, i ricchi coloni ne fecero l’isola felice. E proprio a uno dei più illustri romani, forse, la Camargue deve il suo nome, stando ai latini: Caii Marii Ager, ovvero campo di Gaio Mario. Se andate ad Arpino, per esempio, rincorrerete delle voci che vi confermeranno che il generale Gaio Mario, homus novus, dopo aver debellato la minaccia dei Teutoni e degli Ambroni, donò ad Arpino le rendite che quei territori camarghesi offrivano, a beneficio dei templi e degli edifici pubblici della città natale. L’anno fu il 102 a.C., il luogo della battaglia Aquae Sextiae (Aix en Provence), Mario annientò gli Ambroni, li disfece facendo 10.000 prigionieri, ovvero quello che è uno sterminio. L’anno dopo, in località Campi Raudii (Vercelli) respinse un’altra tribù dei Germani, i Cimbri, dissipò la loro sete di conquista dei territori controllati da Roma. La battaglia dei Campi Raudii creò gloria e dissidio, di lì in poi la guerra civile, Mario e Silla nemici giurati, di lì a poco Cesare e il Rubicone, la sfida al Senato, di lì a poco la fine della Repubblica.
Madame Pastel mi suggerisce altre ragioni. Pare che la Camargue il nome se lo sia preso da un’antica divinità mediterranea, Camars, o, stando ad arcaici dialetti celtici e liguri, vorrebbe dire Campo coperto d’acqua (Ca-mar) e non riesce difficile crederlo. Poi mi fa osservare: non ha confine, e allora sembra valida persino l’etimologia che la lega a n’a cap marca, che proprio quello vuol dire, alla maniera degli occitani.
A ogni modo, la Camargue accoglie chi è cacciato. Così fece coi greci in fuga dai persiani, stabilizzati sulla foce del Rodano, così fece nel 48 d.C. con una delegazione di conoscenti e amici di Gesù. Testimoni diretti della crocifissione, le loro orecchie avevano sentito le ultime esasperate parole del Salvatore, le loro bocche avevano ripetuto la Buona Novella. Perseguitati, si dettero alla fuga. Secondo la versione della Leggenda Aurea, furono lasciati andare alla deriva in una barca senza vela né remi. Tra di loro, colui che aveva fatto ritorno dalla morte, Lazzaro, ligio al comando imposto dal Cristo, camminò imperterrito, o meglio: navigò. Sulla barca, arrivò fino alla Provenza, scortato dalle sorelle Marta e Maria di Betania, insieme a Maria Maddalena e ad altre due Marie (l’una Marie Jacobé, l’altra Marie Salomé, con la loro serva Sara). Sfuggendo alle persecuzioni sbarcarono a Saintes-Maries-de-la-Mer (o Marsiglia secondo altre versioni).
Nella versione che riporta la Camargue come luogo dello sbarco, si dice che vi trovarono una fortezza, Oppidum Rà, dedicata al dio solare egizio. Essa comandava sul Mediterraneo e controllava la navigazione verso Arles sul fiume.
Marie Jacobé e Marie Salomé rimasero in Camargue e fondarono una prima comunità cristiana. Gli altri profughi si dispersero con il proposito di evangelizzare la Provenza. Marta arrivò ad Aix -en-Provence e fece proseliti. Si dice che riuscì anche a resuscitare, tenendo bene a mente la vicenda del fratello, un annegato che voleva attraversare il fiume, senza troppo successo.
Di fronte alle acque immobili, la signora Pastel si prende un attimo per farmi abituare alla vista. Il dito non smette di indicare, lo seguo come il proverbiale stolto lunare che ignora l’enorme pantano in fondo alla direttrice del suo indice anellato.
«Vous avez entendu parler de la tarasque?».
La Tarasca, bestia figlia di altri due orrori biblici, in Camargue c’è arrivata direttamente dagli altopiani dell’Anatolia, dai meandri ignoti della regione della Galazia, generata dall’unione mostruosa tra l’Onaco e il Leviatano. Il primo, obbrobriosa creatura in grado di lanciare letame infuocato “come fosse una freccia e chi ne è colpito brucia come fosse fatto di fuoco”, il secondo invece “un serpente d’acqua ferocissimo”.
L’increscioso frutto della loro unione apparve, seguendo segrete e mostruose migrazioni (secondo la Leggenda Aurea venne portato in Francia da alcune navi), nel villaggio di Nerluc, fece la tana nel letto del Rodano e si diede alle devastazioni. Jacopo da Varazze ci dice fosse di casa in un bosco tra Arles e Avignone, e fu lì che santa Marta lo intercettò, trovandosi di fronte
un drago, mezzo animale mezzo pesce, un po’ più grande di un bue, più lungo di un cavallo, con denti affilati come spade e disposti a guisa di corna, con due grandi piastre ai fianchi.
A ingaggiare la dracomachia, ovvero la lotta contro il drago, uno stereotipo in cui sono cimentati molti santi da san Michele a san Giorgio, fu santa Marta di Betania, la quale sorprese la bestia proprio mentre stava mangiando un uomo. La tradizione medievale ci racconta del fatale incontro tra la pia donna e l’immondo animale, proprio nei pressi di Nerluc, ovvero “luogo nero”, per via dell’ombra dovuta ai molti boschi.
Raccolte le richieste d’aiuto e le lamentele, Santa Marta sfida la Tarasca. La sua voce chiama l’intervento celeste, a ogni preghiera la bestia, secondo le versioni, si miniaturizza o si ammansisce. Sempre più piccola, o sempre più calma, fino a che può essere scortata al villaggio di Nerluc (oggi Tarascona). I cittadini di Nerluc uccisero la bestia a colpi di lancia e ancora oggi ne ricordano la vicenda, festeggiando la sconfitta l’ultima domenica di giugno.
Mi viene da chiedermi, c’è mai stato un mostro nelle acque della Camargue? O, come di consueto con storie di questa pasta, magari fu la vista di un coccodrillo fuoriuscito da qualunque parte e per motivi ignoti a scatenare la fantasia. Oppure fu il concretizzarsi di una simbologia nascosta, e la Tarasca, più che altro, richiama la memoria perduta di un’inondazione clamorosa. Oppure, infine, la bestia sconfitta è un’eco della lotta al paganesimo e la sua soccombenza nei confronti della Croce?
Un leggero vento polveroso inumidisce gli occhi, o forse è lo sguardo che per osmosi, al troppo scrutare dentro le zone paludose, si annacqua e la domanda rimane inespressa e insoddisfatta.
La mattina dopo, a coronamento d’una sostanziosa colazione, mi viene offerto un altro segreto a buon mercato. Me lo servono di fronte all’ampia stalla, in cui bianchi cavalli si scrollano di dosso le prime mosche del mattino.
«C’è un solo vero punto di favore da cui guardare la Camargue».
«Un altro punto panoramico?», chiedo, guardandomi intorno e vedendo un orizzonte piano e infinito.
«Più o meno», mi dice lo stalliere di Madame Pastel, mentre mi indica la groppa d’un cavallo bianchissimo.
IL TORO, IL CAVALLO, IL MARCHESE
Io sono il toro che, dall'Asia
fino alle foreste della Liguria,
ha regnato con la gioia,
con l'arte e con il sangue
sui popoli mediterranei.
Folco de Baroncelli-Javon
Sono sulla strada per Saintes-Maries. Se chiudo gli occhi rievoco senza problemi una visione che mai ho posseduto, ma che semmai intuisco, d’una mandria all’alba che si allontana. Sono immerso in un cupo silenzio, non fosse per l’idea che il mondo più avanti continui, non fosse per una macchina che ogni tanto passa, potrei essere all’inizio o alla fine del tempo.
Monto un cavallo placido, gli osservo il gioco frenetico delle orecchie mentre il resto della compagnia mi precede e mi segue. Attraversiamo la piana camarghese, osservandola, cercando nei riflessi, così come nelle fronde elettrizzate dal vento, un segno d’un’apocalisse mai avvenuta o dimenticata.
A tirare avanti la compagnia, Michel, lo stallaro metà francese, metà andaluso. Possiede i segreti della briglia e delle redini.
«Là allevavo i cavalli, qua allevo cavalli», mi dice puntando con esattezza verso l’orizzonte spagnolo. Mi esprime un equilibrio di bilancio che mi rassicura. Ha anche una sua storia, persino tragica per quanto oscura, una trama che indovino appena. A Michel chiedo chi sia il vecchio a cavallo, questa figura di vecchio che appare al di là del vetro di ogni quadro nella sala colazioni.
Si tratta di Folco de Barnoncelli-Javon detto Marquis, ovvero il Marchese. Poeta, mandriano sacerdotale e guerriero, allievo di Mistral, coi manadier riconquistò la purezza delle razze equine e bovine.
Baroncelli la Camargue l’ha sognata e ha fatto del sogno un piano terreno, ha imposto la croce camarghese come simbolo inequivocabile e ora la trovi ovunque, in tutta la valle provenzale del Rodano e fino alle città dopo il delta.
Discendente del Baroncelli assassino che nel 1478 attentò con successo alla vita del fratello del Magnifico, Giuliano de’ Medici, fu l’ultimo d’una famiglia spogliata d’ogni virtù. In fuga da Fiesole ad Avignone, si rintanarono a Palais Roure, almeno finché Folco non lo mise in vendita nel 1907, perché già nel 1895, Folco aveva abbandonato la città per stabilirsi in Camargue e fondare il Manado Santeco e qui allevare tori.
Nel 1905, Folco si presenta invece di fronte ai Sioux a Tolosa, disperatamente al fianco di Buffalo Bill. Ce lo ricorda Elémire Zolla, come un mandriano con “un aria di ambasciatore di qualche oscura potenza”, masticando frasi di lotta contro il “progresso materiale”, e dipingendo i nativi come i catari, ovvero debellati nelle stesse modalità, pronti come loro a rinascere idealmente sotto il sole nuovo provenzale. Baroncelli si sentì capace anche di tracciare una linea di parentela tra i gitani e gli indiani d'America. E infatti i Sioux visitarono Saintes-Maries, porsero gli omaggi a santa Sara nella cripta della chiesa, annerita dalle candele votive. La sera si celebrò il rito della pipa sacra.
Quando Buffalo Bill portò il suo Wild West Show in Camargue, Baroncelli offrì animali e uomini al suo servizio, prese spunto per i giochi equestri dei guardiani.
«Il Marchese la Camargue l’ha tirata fuori dall’ideale. L’ha concretizzata. Sicuramente ci ha creduto» mi conferma Michel. «Ha commissionato la croce della Camargue, che ora vedi ovunque, disegnata su ogni cosa. La razza del toro camarghese l’ha selezionata lui, l’ha ricercata. Ha allevato i tori e i cavalli rivedendo in essi una purezza perduta».
A Saintes Maries in onore di Mitra si sacrificava il toro, il suo sangue bagna questa terra da secoli, a lui è dedicata ogni zolla, ogni giunco. Lo si uccideva e il sangue della bestia colava sulle spalle dell’uomo che ne avrebbe preso la forza. La pietra su cui poggia santa Sara nella cripta di Saintes Maries, dove attende i fedeli, è la stessa pietra dedicata un tempo ai sacrifici dei tori.
In Camargue il toro c’è arrivato come la Tarasca, seguendo misteriosi disegni, dall’Asia, portando con sé il culto di Mitra e della tauromachia.
Baroncelli lo osservava attentamente e nella sua immobile virtù certificava una linea di contatto con l’uro, bos primigenius, antico bove in fuga dai cataclismi del quaternario, rifugiato in Camargue in questo estuario del Rodano che poteva “fargli credere che i tempi preistorici non fossero finiti”.
La Camargue è sua. Lì nasce, vive lì, lì muore, come ha sempre fatto. Si integra così tanto con il paesaggio che spesso è difficile distinguerlo. Fugge dai dintorni delle strade e persino dalle piste, preferendo le lunghe distese di engaños, gli stagni velati di canne, le pinete dai profumi in resina, per stabilire lì il suo dominio, la sua querencia, contro gli sguardi non iniziati, le curiosità impazienti.
Michel Droit
Il toro è al centro delle gare dentro le arene, corride non mortali. In previsione della corsa camarghese, durante la fase del triage, si sceglie una trinità tra i capi bovini, li si eleggono secondo certe leggi mandriane. Questo triage viene portato all’abrivado, i gardiens accompagnano le bestie a cavallo, formando uno stretto triangolo. Arrivati all'arena si sfila, si lascia ambientare l’animale e allo squillo di tromba comincia la corsa. I raccoglitori di coccarda si sfidano cercando di afferrarne il più possibile dalla testa del toro.
Terminata la corsa, gli animali tornano ai pascoli, diretti in autonomia verso la loro casa (è la fase terminale del bandido).
Il più grande alleato del toro è certo il cavallo, i due si conoscono, condividono lo spazio allagato. Dove domina la salicornia, il cavallo istintivamente conosce il passo da tenere, le modulazioni del terreno, e lo capisco bene ora che la mia mano è inutile, la mia guida una farsa. Che l’abbiano portato i Cartaginesi o i Saraceni, il cavallo della Camargue qui è come se fosse un’emanazione stessa del luogo. Sono tutti d’un grigio sbiancato, non giganteschi, anzi di piccola statura. Tendono i muscoli e offrono la criniera alla corsa, almeno nelle immagini che di loro mi sono fatto.
Libero nelle paludi, sa condurre le mandrie di tori di razza camarghese verso la manade, il maneggio.
«Questo cavallo è resistente, Baroncelli stesso lo mise alla prova: in quarantatré ore fece andata e ritorno Saintes Maries - Lione. Quattrocento cinquanta chilometri».
Toro e cavallo sono simboli antichi, emblemi incarnati che posseggono il paesaggio e dal paesaggio sono posseduti. Sono modellati dal sole e dal vento, bevono e assimilano le acque di questo mondo sommerso.
Schiumosa è la loro marcia, le loro criniere vivacizzate dal movimento ricordano le dune modellate dal vento, anche loro si gettano a capofitto secondo il moto della mandria verso una fuga improvvisa.
Chi l’ha vista la fuga di una mandria di cavalli camarghesi, vi ha letto sicuramente dentro il segreto di un’energia invisibile, in quel moto che rievoca la leggenda della loro nascita, ovvero di un uomo inseguito da un toro nero proprio sulla spiaggia di Saintes-Marie-de-la-Mer, il quale, trovatosi alle strette, si gettò in mare. Ormai preda delle correnti, venne in suo soccorso un destriero che, generato dalla schiuma del mare, lo portò in salvo. Uomo e cavallo diedero il via all’addestramento del camarguese, principiando la dinastia dei cavalli degli acquitrini.
Il giro finisce, torniamo al maneggio. Facciamo appena in tempo a vedere le schiere dei fenicotteri, immobili come soldati rosa nelle pozze di sole che dilagano all’orizzonte. Da qualche parte, in una direzione che non saprei, riposano le ceneri di Baroncelli, sui resti della sua ultima fattoria, bombardata dai tedeschi nel’44: Lou Simbeu.
Sulla strada che porta a Saintes-Maries, le macchine vanno spedite. Ci andrò anche io, questo è sicuro, per vedere la processione. La strada mi chiama, il vento è favorevole, la via della festa è di fronte ai miei piedi, pronta al passo.
LATCHO DROM: SARA LA NERA E I FIGLI DEL VENTO
È la Camargue gardians, quella del venti, del sole, delle manade e degli orizzonti di cui la chiesa-fortezza delle Saintes domina lo spazio annegato...
Michel Droit
Saintes-Marie-de-la-Mer, capitale della Camargue, si sviluppa in una serie di stradine strette e lunghe a partire dal suo cuore, la chiesa costruita nel XI e nel XII secolo. Si è detto, e Festo Avienio ci conferma, come il nome primordiale del villaggio fosse dedicato al dio-sole egizio, Ra, signore ieracocefalo di Eliopoli, padre d’ogni faraone.
Il nome mutò più volte nel tempo, il villaggio che sostituì la piazzaforte si chiamò a lungo Notre-Dame-de-Ratis, poiché Ratis vuol dire zattera, o isolotto. Quindi divenne, intorno al X secolo, Notre-Dame-de-la-Mer, e, solo nel 1838, Saintes-Maries-de-la-Mer.
Così come i popoli la Camargue accoglie gli dèi: sia egizi come Ra appunto, esule direttamente dalle antiche sabbie d’Egitto, così come Mitra, il dio uccisore di tori, fino alle sante di Palestina. Anche i Vichinghi, benché non accolti ma invasori, svernarono a Les Saintes nel terribile inverno dell’859.
Saintes-Maries fu il cuore dell’evangelizzazione della regione, da qui partirono Lazzaro verso Marsiglia e Marta verso Tarascona (insieme alla bestia). Maria Salomé e Maria Jacobé, con Sara naturalmente, si stabilirono vicino all’oppidum. Si racconta di una tribù zingara pronta ad accogliere le sante: erano già insediati in Provenza prima dell'arrivo delle sante Marie? Da qualunque posto fossero arrivati, gli zingari, secondo Michel Droit,
erano nati per compiacersi nel cuore del delta. Hanno il rispetto delle tradizioni, la fede nel cavallo e nel toro, il senso del sogno, un certo lirismo, e la loro musica alla fine esprime quasi altrettanto bene la Camargue quanto le armonie più autenticamente provenzali.
La strada che da Arles congiunge a Saintes-Maries è affollata dai cortei, dagli autostoppisti che cercano, a piedi, di arrivare al mare. Oggi le carovane e le vecchie tipiche roulotte sono una traccia folklorica di quello che fu. Ci sono, a dire il vero, permangono in funzione estetica nelle stradine vicino al mare, oggetto di curiosità e di scatti forsennati da parte degli stranieri. Rombano i motori, su cui famiglie intere viaggiano verso il punto focale, la chiesa.
Entrati a Saintes-Maries seguo il flusso, questo paradiso fotografico, in cui si stringono compatti come legionari i fotografi di tutta Europa, pronti a cogliere lo sforzo, la vocazione, il mito sui volti dei gitani in processione.
Giovani spose e madri, padri con in braccio i figli, uomini e donne d’ogni età a grappoli si infilano nelle stradine straripanti. I negozi che non offrano cibo sono per lo più chiusi. Saintes-Maries oggi vive esclusivamente di turismo. Pescatori e agricoltori si sono ridotti in favore dei commercianti, i pensionati provenienti dalla regione abitano le case basse e bianche, almeno quelle che non sono tenute per gli affitti dei periodi intensi.
Il letame dei cavalli dei gardians profuma l’aria, la luce del giorno rimbalza stremata sulle case, la musica si impossessa del villaggio.
Arrivo scortato dalla musica alla chiesa. Mi accoglie la visione della croce della Camargue dipinta su una facciata. La croce la commissionò Folco de Baroncelli e fu disegnata dal pittore Hermann Paul nel 1924, cento anni fa. Un primo esemplare forgiato da un fabbro locale fu posto al centro del villaggio finché non venne rubato.
Vicino la croce, siedono su un muretto due uomini, nella piazza ombrata dall’alto campanile e dalle mura imponenti, di fronte a loro si accalcano gli ascoltatori. Quello con gli occhiali canta, mentre l’altro suona la chitarra. La frustata della mano che colpisce le corde, le dita che fremono, evocano il flamenco attraverso gli ululati di dolore e piacere. Difficile distinguere l’uno dall'altro.
Nei caffè, al lato della strada, si accalcano, per appuntamenti inespressi a voce, suonatori d’ogni risma, classici e dolenti, o gioiosi jazzisti manouche, oppure omoni vestiti di tutto punto che cantano una specie di neomelodico amplificato dalle casse-trolley.
Da queste parti anche un giovane Bob Dylan venne, gironzolando per le stradine bianche, in concomitanza con il pellegrinaggio. Fu qui, a quanto pare, che gli venne in mente di scrivere One more cup of coffee, contenuta nell’album Desire del ’76.
Mentre penso a Dylan, mi avvicina Rosita, signora piegata due volte su se stessa. Alzò lo sguardo per offrirmi il dono, retribuito s’intende, d’una medaglietta delle Sante. Proclamata l’offerta l’accompagna con un sorriso che illumina due occhi millenari.
Non ho soldi con me, e sono sincero. Fa un gesto senza smettere il sorriso, un largo gesto che non lascia spazio a interpretazioni, potrebbe essere una benedizione o una condanna. Si vedrà.
Mi infilo dentro la chiesa straripante attraverso una porticina laterale. L’oscura navata scintilla per le candele accese in mano ai pellegrini.
Fu sempre Baroncelli a intercedere affinché accettasse il pellegrinaggio gitano. Le Sante invece si onorarono almeno dal 7 gennaio 1449, nonostante che nel 1749, in pieno Terrore, vennero bruciate le loro reliquie.
La folla si compatta, dalle gole emerge il coro: “Viva le sante Marie! Viva santa Sara!», in risposta a ogni versetto di cantico, i fedeli saltano sul posto e si spingono, la mano è tesa al sacro legno. I figli vengono proiettati verso l’alto, tenuti dalle salde braccia e offerti alla santa, gli infermi sperano nel miracolo, gli applausi spaventano le rondini.
La processione si avvia, fuori dalla chiesa i guardiani attendono di fronte al portone. Fermi sul posto, scrutano la folla. Esce la santa e la processione ha avvio, con moderazione. Una fiumana lenta si mette in cammino e arriva fino al mare, dove gli zingari portano a spalla la statua di Sara nella sua incarnazione di ragazza, minuta dentro il cappotto enorme che la ricopre, il suo volto scuro dal drappo azzurro si affaccia come un puntino che si perde.
Nella cripta riposa, prima e dopo le processioni. Si accalcano i gitani, le sfiorano le guance d’ebano. Chiedono protezioni e dedicano preghiere, le mani dei figli sono attirate da quelle dei padri e delle madri a contatto con la statua.
Chi è questa santa dalla pelle nera?
La sua origine richiama quella mitica dei Rom, proveniente, secondo alcuni, dall’India lontana: Sarah-la-Kali, Sara la nera, incarnazione della dea Kali, signora mortale portata dall’Oriente in Francia nel IX Secolo e rimodellata dalla fede cristiana per un meccanismo di sincretismo religioso sbalordente. Sotto il suo sguardo di ragazza brillerebbe l’oscura divinità del tempo e della distruzione.
C’è anche una possibile origine ebraica, secondo la quale Sara sarebbe stata proprio una Rom, guida del suo popolo sulle rive del Rodano. La visione dell’arrivo delle Sante, convinse Sara ad aiutarle a sbarcare, le accolse, le salvò. Ai tempi si portava una statua di Astarte (antica dea babilonese Ishtar) fin dentro le acque d’un fiume, e questi antichi riti sono riproposti oggi a Saintes-Maries, sotto lo sguardo di Sara la Nera che fu forse Kali, che fu forse Astarte.
Per Baroncelli, promotore di un sogno che univa un certo paganesimo alla solida fede cristiana, santa Sara era la custode della forza solare e taurina espressa dal fuoco.
Oggi quella che si svolge di fronte ai miei occhi di straniero, è una festa capace di convogliare anime diverse del credo, nel nome del Cristo e della santa che santa non è. Il rito si conclude arrivati alla spiaggia, quella stessa dove, all'inizio di giugno del 1888, si stupì Vincent van Gogh nel suo soggiorno di cinque giorni a Les Saintes. Van Gogh congelò nel gesto pittorico le capanne e le barche, la spiaggia, la visione del villaggio dalle dune della costa.
Proprio lì, in quegli stessi spazi, i gardians attraversano al passo la spiaggia affollata, entrano in acqua fino ai fianchi dei loro cavalli, e molti zingari fino alla vita. I canti non si fermano, le mani continuano a tendersi verso la santa, i cavalli placidi osservano la calca dietro occhi umidi, così come i guardiani, che avanzano attraverso un corridoio umano, che osservano dall'alto delle loro selle. Dopodiché santa Sara viene riportata dentro la sua cripta, accompagnata nel buio dai canti, dalle grida, dalle lacrime.
Esaurite le liturgie, il villaggio rimane preda della festa, mentre le famiglie si allontanano. La notte scende piano. Anche io saluto. Mi lascio alle spalle le danze sfrenate e i canti. Vorrei poter passare la notte con loro, sentire e vedere attraverso lo sguardo degli iniziati, contemplare i folli turbini delle gonne vorticanti, immagini di un mondo che forse non c’è più. Vorrei contemplare l’oscurità mescolato ai Figli del Vento, intercedere presso i loro accampamenti. Imparare dal segreto delle loro falangi il mistero d’un flamenco originale. Mitragliare il suolo al ritmo scatenato dei loro piedi danzanti e poi mettermi in cammino verso chissàdove. Si dice che una volta, la cripta di santa Sara li ospitasse durante la notte, impossibile per uno straniero accedere al cospetto della Vergine Nera durante le infinite notti. Avrei dovuto conoscere una lingua segreta, una legge che nessuno ha stabilito, eppure esiste.
Non sarebbe possibile. Vado via prima, il mio battesimo camarghese è comunque accaduto.
Sicuramente il prossimo 24 maggio loro saranno esattamente dove li ho trovati.
Me ne vado, ormai iniziato a questa landa dell'immaginario dove “solo i ricchi e i pezzenti possono vivere da gran signori”, come Montale settant’anni fa, da questa terra che pare sognata e di cui mi porto via un pezzo, per sognarla a distanza.
Non è scorretto pensare che, qualora fossi sulla strada, sul finire di qualunque maggio degli anni futuri, non mi ritrovi per certi incastri del destino e della fortuna, diretto al paese dove si festeggia la signora dei gitani, il paese del toro e del cavallo.
Perché, come dice, ed è vero soprattutto in quel periodo, tutte le strade portano a Saintes Maries, forse anche la mia, prima o poi.
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