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  • Immagine del redattoreZanara

VIA VALDIRIVO, 16 TRIESTE: Il re ne comanda una

Aggiornamento: 5 set


Chiave di volta scolpita a forma di testa baffuta sopra il portone del numero 16 di via Valdirivo, Trieste.

A Trieste, in Via Valdirivo 16, c’è una casa che solo casa non è.

Ci arriva una sera disperata Tina, in fuga dal marito Franco, con le sue due figlie, Pupetta, la maggiore, e Millina, appena scambiata per una nana dal controllore del bus. Tina vuole riscattare le cambiali con Orlando, il padrone di casa e creditore del marito ubriacone, e si mette dunque a servizio. 


Oh quante belle figlie, Madama Dorè.


Lasciata alle spalle, Trieste si dissolve, rimane fuori da una casa che è anche fabbrica, dove si produce una sostanza che ha a che fare sia con la cosmetica che con la guerra. E nella strana magione, la guerra è costantemente dichiarata dai satelliti che ruotano intorno al Padrone: dalla vecchia moglie Rosa, dall’amante in carica e direttrice della fabbrica, così come dalla figlia Divina, dalla stessa Tina e perfino da Massimo, il cognato del Padrone – che si è dato alla macchia in un giardino-giungla con il fucile in spalla, sempre pronto a detronizzare il tiranno. Tutti si ingarbugliano in una matassa di invidie, rancori e nevrastenie, si scornano per attirare le attenzioni del Padrone, “come per un’eterna partita a scacchi, si cerca il matto” con la voce dello strepito, della lagna e della pretesa, ma la partita è di quelle che durano a finire. Ognuno si ritrova indissolubilmente legato all’altro, scoprendo come forse ci si senta più vicini nell’odio che non nel suo contrario, fedeli alla consuetudine, comune a molte famiglie, per cui secondo solo un’inscalfibile e inesausta discordia può mantenere l’ordine tra le quattro mura. 



L’abitazione di via Valdirivo 16, si scopre ben presto, è un luogo in cui la dimensione spaziale si confonde, nonostante la facciata non denunci nessuna delle bizzarrie che cova invece all’interno, se non una leggera incongruenza strutturale con gli altri palazzi vicini.



La casa di via Valdirivo 16, fra il 18, il 14 e gli altri edifici del quadrilatero delimitato da via Trento, via Roma e via Milano, appariva più stretta e più bassa di quanto fosse logico attendersi da una casa in quella parte della città. Al suo piano terreno non aveva fori in cui si fossero potuti annidare mercanti o mercanzie di alcun genere, e dal primo piano al tetto, poi, non mostrava che delle finestrucole chiuse, sui davanzali delle quali sostavano perennemente dei colombi coi dorsi voltati e le code all'ingiù, come ciglia abbassate. Sola fra le altre case a essere così, dal di fuori, compatta, pareva destinata più a opporsi a un loro normale congiungimento che a farne parte integrante; mentre chi avrebbe potuto supporre - se non lo sapeva - che all'interno era tutta bucherellata, tenera, sgretolabile perfino da un anello di vento? Aveva un giardino, quattro o cinque chiostrine da cui era circondata, come sfogatoi, tutto il corpo suddiviso in tante stanze e stanzette, intersecate da stretti corridoi, così da assomigliare a un alveare, da far pensare che un giorno dovesse venire invasa da qualcosa di liquido e di vischioso.

La casa si presenta appunto come un intricato alveare, attraversato da un lungo corridoio color caffelatte, da cui si accede al salotto, allo studio, alla sala da pranzo.  Tina si meraviglia del “numero incalcolabile di vani” il cui uso non comprende. In ogni stanza mancano quadri e decori, mancano i tappeti, non ci sono orologi. 

Il giardino, dove lo “zio” Massimo si annida, è una  “grande foresta condensata in pochi metri di terra.”


Il Re ne comanda una a opera di Stelio Mattioni, esce nel 1968 per Adelphi, fortemente voluto da Bobi Bazlen. Ingiustamente dimenticato, o non abbastanza ricordato (e in tal senso vale il rilancio operato dalla casa editrice Cliquot nel 2019) Mattioni abita uno spazio letterario che, a partire da suggestioni mitteleuropee della Trieste novecentesca, sprofonda nelle inquietudini dell’essere, circoscrivendo l’assurda condizione di chi, ovvero tutti, si trova schiacciato dalle maglie di un destino inderogabile, limitato negli spazi di manovra anche nel momento in cui si desidera, e persegue un qualche tipo di emancipazione, destinata a rimanere frustrata.





Sebbene la storia che mette in scena sia in qualche modo drammatica, dopo un inizio che parrebbe quasi neorealista, si entra attraverso l’evocazione favolistica che il titolo richiama (la filastrocca Madamadoré), in un microcosmo perverso e grottesco, permettendo a Mattioni di esagerare i tratti, di rendere sibillini i dialoghi e di cogliere sul fatto il manifestarsi di una dimensione paradossale dell’esistenza che sotterraneamente si annida nelle dinamiche di potere taciute della bizzarra famiglia-harem di via Valdirivo 16 e che emerge dalle ambigue feritoie della vicenda grazie alla manipolazione compiuta e cosciente della parola esatta che Mattioni sfoggia sicuro: forte d’una prosa puntuale tratteggia e popola la casa di personaggi idiosincratici che pure sono costretti alla convivenza. Costretti da chi o che cosa? Dal Padrone, sottospecie di Barbablù minore, si direbbe, o da un azzeramento increscioso della volontà, dall'auto vittimizzazione, dal desiderio di non avere ragioni, di vivere comodi in un mondo ordinato seppur con mille vessazioni fisiche e psicologiche.


Il Padrone-re sceglie la sua amante, e tante ne sono passate in quella casa, a cui spetta per diritto la chiave della camera che sempre rimane chiusa, ma solo se la prescelta è disposta a prendersela davanti a tutte le altre, dichiarando con il plateale gesto quello che pare sia tanto un diritto che un dovere, in ogni caso da ostentare teatralmente se lo si vuole riconosciuto.

Questo oscuro re-creditore, la cui bocca rosea e seducente si nasconde dietro un folto paio di baffi, non ha corona ma voglie. Tenta di circuire Tina ma la donna resiste, si aggrappa all’orgoglio, alla buona creanza e allo spirito materno da difendere. Eppure, con la stessa forza con cui si tira sopra la testa le lenzuola della morale, si ritrova nuda, cede a poco a poco alla forza primordiale che anima la volontà del Padrone, primo e unico a desiderare. Perché il meccanismo del desiderio è in atto ed è una forza inesorabile, vane sono le volontà: la carne, si sa, è debole, i nervi si sfibrano e la razionalità cede. Soprattutto per Tina, che era entrata in via Valdirivo 16 per emanciparsi e si ritrova legata a doppio filo alle voglie d’un Casanova onnisciente. 


Nella casa di via Valdirivo 16, le regole sono imposte e il cambiamento è sconsigliato, comunque inattuabile. La casa e le sue leggi non mutano, i riti si ripetono (la settimanale uscita a messa è stata sostituita con la visione collettiva del televisore). Ognuno tiene fede al proprio ruolo e alla funzione: Pittsburg, un omino col basco così vecchio che qualunque stimolo sessuale per lui è impossibile, come gli angeli asessuato, che non desidera ma ricorda un’America vaga di un passato andato, si occupa esclusivamente del magazzino; Franco, il marito offeso di Tina, tiene d’assedio la casa dalla strada, spedendo lettere di richiamo per recuperare la moglie;  la consorte  dimenticata di Orlando e la figlia inacidita cercano di mantenere saldo il loro ruolo; Attilio, il figlio maschio, è perennemente annuvolato dalle sigarette consumate, nel malcelato desiderio di svanire con ogni fiato di fumo.  

Anche la rivoluzione di Massimo, nemico giurato del Padrone che ha deciso di abbattere, non può nuocere, perché fa parte dello stesso sistema che tenta di smantellare: è una rivoluzione concessa e per questo inattuabile.


Il gioco perverso e inalterabile nei suoi meccanismi più profondi avvolge gli inquilini come un gorgo abissale, una galassia in cui al centro siede e comanda un sole oscuro, il Padrone Orlando, impossibile sgangherarlo, e non solo: più lo si comprende, più si scivola nella maglia delle sue voglie, più lo si assimila, lo si contempla, più si è dentro al gorgo, scoprendo il senso di un destino inevitabile, un caotico fluire dell’essere, di strepiti, di forze in atto e strategie, di odi e rabbie, furori e orgogli, e nonostante tutto non cambia nulla, non si sposta nulla: nella dimensione infinita della clausura, nella limitatezza delle pareti in cui si è costretti la vita è uguale per tutti dentro via Valdirivo 16, ognuno ha il suo destino e la sua funzione.


Al culmine della vicenda, (può definirsi vicenda il resoconto di un’immutabilità feroce?) un arrivo sconvolge gli equilibri: la madre di Tina, (Madama Doré ex machina) entità suprema in cui tutti i nervi di potere convergono (dopo di lei neanche Dio). Il suo giudizio è universale, quant’è vero che tutti hanno una mamma. 

La signora, quest’enorme e fredda matrona, scappa dalla sua pensioncina milanese, e si accomoda sulla poltrona dell’ufficio di Orlando, pare l’unica capace di mettere il Re in una posizione di subordine, lo schiaffeggia e lo ammutolisce, prova a sistemare la situazione della figlia a modo suo, ignorandone le esigenze o le motivazioni. 

Questa figura materna perturbata, implacabile autorità al cospetto della quale le altre si sgonfiano, “unica in grado di giudicare e unica a non farlo” grazie al diritto già acquisito di essere sopra ogni contrasto, accompagna Tina alle porte della sua ultima e terminale presa di coscienza quando Pupetta, la figlia, scopre dentro la casa lo sguardo del Padrone e da bambina ignorata diventa adolescente desiderata, quindi la possibile nuova favorita. Tina, le cui resistenze si assottigliano man mano che il gioco le si spiega davanti, a questo non può cedere, non vuole. La madre impone a Tina di lasciare la figlia dentro la casa e uscire finalmente fuori, tornare da Franco e dalla secondogenita (nel frattempo fuggita dalla casa grazie all’intervento di Massimo) o farsi una vita sua. Ma Tina non ci sta. Perché è diabolico il meccanismo in cui è finita, è una battaglia intima e personale, una lotta tra il suo ruolo di madre e di donna, in ogni caso tutto suo è lo scacco: o dentro accetta di diventare la favorita prendendo finalmente la chiave di fronte alle altre, o lo diventerà la figlia, qualora lei esca. Ma fuori dalla casa, in quei pochi passi che riesce a fare, viene investita dal caotico mondo esterno. Taglienti riecheggiano le parole di Orlando: “Non sapresti che fartene, della libertà”.


Fuori, il sole era alto, caldissimo, ogni materia appariva scavata e tormentata dalla sua luce fino allo spasimo. Altro che in giardino. Sentì un odore dolciastro, nauseabondo. La gente andava e veniva, indifferente. E dentro? A quell'ora era già suonata la sveglia, e ognuno sapeva benissimo cosa fare. Più in là, all'incrocio con via Roma, il cielo, tutto azzurro, si abbassava premendo sopra il tetto delle automobili in corsa, sulla gente che a stento riusciva a sfuggire, e la stessa cosa era più in giù, verso corso Cavour. Ma dov'era allora che si poteva stare senza correre il rischio d'essere schiacciati: al centro della cupola del cielo, dov'era più alto e più distante, o...

Così Tina ricerca la sua gabbia, mentre là fuori la città scorre, questa Trieste che vive e ignora l’assurdo imbrigliato e annidato dentro via Valdirivo 16. Dimenticati il tentativo frustrato di emancipazione, la scoperta sessuale, le invidie e le nevrastenie, Tina torna dentro la casa, sceglie la sua prigione, a pochi metri dal taxi che l’avrebbe portata via si accorge che nonostante tutti quei legami che la identificano come moglie, amante, sorella, figlia e madre, il vero fondo di lei è imprigionato in un destino di solitudine che può odiare, accettare, lamentare o subire. Ma che non può davvero più evitare. 


















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