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IL MOAI, VITORCHIANO

  • Immagine del redattore: Zanara
    Zanara
  • 4 apr
  • Tempo di lettura: 9 min

Aggiornamento: 5 apr

27° 07' S 109° 22' W - 42°27′59″N 12°10′24″E
Il Moai di Vitorchiano (VT) oggi.
Il Moai di Vitorchiano (VT) oggi.

Nel 1722 la domenica di Pasqua cadeva esattamente il 5 aprile. 

Lo sappiamo con ragionata certezza perché in quel preciso momento storico, al largo delle coste di Rapa Nui (“grande Rapa” secondo i suoi tenaci abitanti, chiamata così in relazione all’isola Rapa Iti, ovvero “piccola Rapa”) si aggirava un ammiraglio della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, Jacob Roggeveen. 


Poco dopo, l’Isola accolse per la prima volta lo stivale di un occidentale che, in nome e per conto di un’Europa lontanissima e ignara, la rinominò omaggiando la resurrezione del Cristo e il giorno santo che la ricorda. Quello sperduto atollo venne a chiamarsi nelle mappe occidentali Isola di Pasqua. Un onore, quel rinominare lo scoglio, che sarebbe toccato molto prima al pirata Edward Davis qualora non avesse confuso l’isola per il continente, quando gli apparve a portata di cannocchiale nel 1687

Ciò che si offrì allo sguardo e al passo di Roggeveen fu comunque un’isola abitata almeno dal 1100 d.C., quando i polinesiani si insediarono in quella che allora sembrava un’immensa foresta di palme e che, agli occhi dell’olandese apparve invece come una distesa brulla e priva di vegetazione. 

A circa 14.500 chilometri di distanza, il piccolo paese di Vitorchiano viveva allora sotto gli stemmi di Roma, dichiaratasi fedele alla Città della Lupa che nel 1247 l’aveva salvata dai Viterbesi. Ottennero in cambio l’onore di difendere il Campidoglio.

Ma cosa unisce un’isola sperduta nel Pacifico a un tranquillo, per quanto combattivo, villaggio della Tuscia viterbese? Presto detto: una trasmissione RAI, che nel 1990 portò nel paese laziale il primo esempio di moai realizzato fuori dall’Isola di Pasqua e che ancora si staglia immobile sulla terrazza panoramica con vista sull’antico e pietroso borgo.

Il paese di Vitorchiano, sullo sfondo i monti Cimini.
Il paese di Vitorchiano, sullo sfondo i monti Cimini.

Rapa Nui - Viterbo andata e ritorno


Roggeveen era salpato sulla scia dell'avvistamento del corsaro Davis nel XVII secolo e si era posto sin da subito la missione di ritrovare, e metterci il primo fondamentale piede, la fantomatica Terra di Davis, isola cilena tanto ricca quanto leggendaria.

Trovò invece Rapa Nui, al largo della quale rimase insieme all’equipaggio senza sbarcare, almeno fino a che non vennero avvicinati dagli indigeni in barca. Scesi dunque a terra, cominciarono i commerci e gli scambi, ma soprattutto le sorprese.


Come ho scoperto, si sono affidati completamente ai loro idoli, che sono stati eretti in gran numero sulla spiaggia. Gli caddero davanti e l'adorarono. Questi idoli erano tutti scolpiti nella pietra, a forma di umano, con lunghe orecchie. La testa era adornata da una corona.
Carl Friedrich Behrens, marinaio della spedizione di Roggeveen.

L'Isola di Pasqua è costituta, oggi come allora, da tre vulcani spenti: il Terevaka, il Poike e il Ranu Kau. Nelle sue caldere gli indigeni coltivavano banani, mentre nelle profondità della cava di Rano Raraku si estraeva la pietra usata per scolpire i moai. 


Mappa dell'Isola di Pasqua, dal diario di bordo di J. Gilbert, 1772-5.
Mappa dell'Isola di Pasqua, dal diario di bordo di J. Gilbert, 1772-5.

Quando gli europei giunsero sull’Isola, questa era in una fase di declino, dovuto, probabilmente, a una serie di cataclismi naturali e sociali. Le ragioni del disastro? Molte e incerte: guerre civili, terremoti, persino una specie nuova di ratti importati dai primi colonizzatori e che, privi di predatori naturali, pare si fossero moltiplicati essendo ghiotti e famelici di semi di palma; c’è chi ha indicato nelle cause della fine anche la costruzione dei moai che, con la necessaria e conseguente richiesta di legno per il trasporto degli stessi, ha determinato il disboscamento degli alti fusti. Un ecocidio, ovvero un disastro ecologico autoinflitto nel momento in cui, abbattute le palme per poter costruire e trasportare i moai, la diradazione vegetale espose il terreno alle inclemenze metereologiche – c’è da dire, secondo teorie oggi non totalmente supportate.

Ragazzo cileno accanto a un moai non scavato, Rano Raraku, Spedizione Mana all'Isola di Pasqua (1914-1915), pubblico dominio.
Ragazzo cileno accanto a un moai non scavato, Rano Raraku, Spedizione Mana all'Isola di Pasqua (1914-1915), pubblico dominio.

I moai vennero eretti dal 1200, venerati come presenze benefiche il cui sguardo avrebbe protetto per generazioni gli abitanti della “grande roccia” – e difatti puntavano tutti verso l’interno dell’isola. Una venerazione che si esaurisce a partire dal 1500 d.C., quando i moai vennero abbattuti e non ne vennero più eretti. Si prese a venerare l’Uomo Uccello, figura cardine di un rito primaverile in cui guerrieri scelti da ogni tribù si lanciavano in mare, sfidando gli squali, fino all’isolotto Motu Nui, per raccogliere un uovo di sterna fuligginosa. Al primo che lo avrebbe riportato al Grande Sacerdote sarebbe spettato l’onore di divenire l’Uomo uccello. 

La casta guerriera prese il sopravvento sul sacerdote. Venne Makemake, creatore di tutto, dio della fertilità, il cui volto appare ancora oggi inciso sui petroglifi sparsi sull’isola. 

Moai non finito, fonte: Wikimedia
Moai non finito, fonte: Wikimedia

Anche Vitorchiano si pone in prossimità di un sistema vulcanico. Questo borgo sospeso sorge all'ombra dei monti Cimini, formati dall’antico vulcano Cimino e il più recente vulcano Vicano.

Sullo sperone roccioso di peperino che lo sostiene da secoli, almeno dai tempi degli etruschi, Vitorchiano si affaccia a strapiombo sulla valle del Vezza. La rupe è abitata sin dall’età del bronzo, ed è stata oggetto di contesa espansionistica della potente Viterbo, da cui Vitorchiano si dichiarò libera nel 1119. Il singulto di libertà venne mal digerito dai viterbesi, che negli anni successivi tornarono più volte a devastare il paese. Vitorchiano si sottomise infine a Roma e solo allora il Senato Romano nominò il paese “Terra Fedelissima dell’Urbe” offrendo ai vitorchianesi l’onore di poter difendere il Campidoglio.

Altre battaglie che il paese ha visto sono quelle fantasiose e cinematografiche de L’Armata Brancaleone, quando nel 1966 Monicelli portò a spasso lo sgangherato Brancaleone per tutta la Tuscia, fermando in particolar modo la cinepresa sul vecchio borgo di Vitorchiano in alcune scene del film. Lo si scopre già all’inizio, quando Brancaleone tenta di indovinare il nome del paese che ha di fronte e che presto scoprirà deserto: “È certamente San Cimone o Bagnarolo… o anco Panzanatico… o altro loco che io non saprei”. Ci troverà la peste.


Pur essendo due coordinate agli antipodi, Rapa Nui e Vitorchiano trovano un punto di contatto nel 1990, nel momento in cui - grazie alla mediazione di un allora ventiquattrenne cineoperatore livornese, Luca Centoni, e di Maria Costanza Landucci -  la trasmissione televisiva della RAI Alla ricerca dell’Arca, presentata da Mino Damato, invitò una famiglia di pasquensi a costruire il primo moai scolpito fuori dall’Isola di Pasqua.

Nel 1988 Luca Centoni, ispirato dal grande esploratore e antropologo Thor Heyerdahl, si trovava a Rapa Nui col proposito di girare una serie televisiva. Sull’Isola conobbe la famiglia Atan, citata nel libro di Heyerdahl Aku-Aku. Il segreto dell’Isola di Pasqua, ultimi discendenti delle “Orecchie lunghe”, antichi costruttori dei moai, di pelle bianca, provenienti dall’America centrale e meridionale (secondo Heyerdahl) e contrapposti agli altri abitanti di Rapa Nui, le “Orecchie corte”, di origine polinesiana e maori. 

Salutata la famiglia Atan, Centoni torna in Italia, dove alcune traversie produttive mettono fine al progetto della serie. Come racconta Centoni stesso, pensando di abbandonare per sempre l’Isola:


All’aeroporto di Hanga Roa, uno dei membri della famiglia Atan, Salvador Atan Paoa Kon-Tiki, mi disse: "Tu tornerai qui in pochi mesi!". Io lo guardai perplesso e gli dissi: "Non credo proprio, Salvador, questo è Te Pito o Te Henua (l’ombelico del mondo) e ci devi venire appositamente vista la distanza dal resto dei paesi!". Lui mi guardò senza battere ciglio e mi disse nuovamente la stessa cosa. Al mio ritorno in Italia, la serie TV co-prodotta insieme a un’azienda milanese, incontrò dei seri problemi finanziari, quindi per via del fallimento di quella stessa azienda, tutto l’editing restò incompiuto. La proprietà delle immagini rimase mia, tuttavia. Decisi di contattare Mino Damato e il suo programma TV “Alla Ricerca dell’Arca” per piazzare tutto il girato.
Luca Centoni su Due Passi nel Mistero.

Nell’estate del 1989, Damato, ascoltate le storie della famiglia Atan e del loro proposito di costruire un moai fuori dall’Isola di Pasqua, forse in Germania, intuisce di avere tra le mani una grande opportunità. Affida immediatamente a Centoni il compito di tornare l’indomani sull’Isola e di invitare la famiglia Atan in Italia, a spese della RAI. Centoni riparte. 


Al mio arrivo trovai Salvador sogghignante che mi disse: "Te l’avevo detto che saresti tornato in pochi mesi!". Da quel giorno seppi poi che alcuni membri della famiglia Atan sono un po’ magici e comunque veggenti. Ripartii per l’Italia pochi giorni dopo, insieme al capo famiglia Juan Atan Paoa.
Luca Centoni su Due Passi nel Mistero.

Il capofamiglia si mette subito alla ricerca della pietra il più possibile simile a quella vulcanica dell’Isola, individua la zona di Civita Castellana, ma la pietra si rivela inadatta, troppo rossastra e morbida. La Cava Anselmi a Vitorchiano, grazie alla nera pietra autoctona, il peperino, è ritenuta perfetta, così nel gennaio 1990, a Vitorchiano arrivarono una trentina di isolani, quasi tutti della famiglia Atan.

La Cava Anselmi, industria tra le più antiche del borgo e maestri dell’estrazione e lavorazione del peperino, fu lo scenario della diretta e il luogo di lavoro prestabilito. La famiglia Anselmi accolse la famiglia Atan e le due comunità, pasquensi e vitorchianesi, convissero durante la scultura del moai, condividendo entusiasmi e tradizioni.



I pasquensi a lavoro sul moai.
I pasquensi a lavoro sul moai.


Renzo Anselmi, proprietario della cava, mise a disposizione dei pasquensi vestiti destinati a una missione in Africa, poiché l’inverno li aveva trovati impreparati nei loro vestiti leggeri.  Gli Anselmi ricevettero inoltre una lastra di peperino su cui caratteri Rongo-Rongo garantivano l'affratellamento tra le famiglie e la sempiterna ospitalità della famiglia viterbese a Rapa Nui, ormai divenuti fratelli di pietra. 

I pasquensi impiegarono circa quattro settimane per realizzare l’opera a partire da un monolite di 400 quintali. 

Ci furono alcune dirette che aggiornavano sullo stato dei lavori nella cava. Nel frattempo i pasquensi si amalgamavano ai vitorchianesi, la sera i forestieri suonavano nell’osteria di via Ariosto, attirando le attenzioni dei giovani del paese. Grazie all'intervento di Centoni, il quale caricò tutti su un paio di furgoni, i pasquensi riuscirono addirittura a esaudire il loro desiderio di raggiungere il Vaticano e incontrare papa Wojtyla.


Un’ulteriore puntata de Alla ricerca dell’Arca andò in onda e vennero mostrate in diretta le immagini del rito conclusivo dell’opera. Il moai venne issato e messo verticale, pasquensi e operai vitorchianesi si unirono nello sforzo di tirare su l’enorme statua, impresa che la trasmissione commentò con lo straussiano Also Sprach Zarathustra, a memoria di altri e ben più cosmici monoliti. 


I pasquensi continuarono i canti, propiziarono la fine degli sforzi e il futuro della statua. Una volta issata, si festeggiò la conclusione dei lavori vestendo gli abiti tradizionali di paglia e piume sfoggiando i corpi dipinti, danzando intorno al moai, ringraziando con le sacre coreografie la cava che aveva donato la pietra, inneggiando a Hotu-Matua, antico capostipite, segnando l’aria con canti struggenti accompagnati da ukulele, gli Atan si dedicarono il pasto cerimoniale in un forno sotterraneo. 

In diretta televisiva, 19 abitanti della tredicesima generazione, discendenti degli uomini dalle lunghe orecchie, mostrarono dunque all’Italia intera il rito del Kuranto, per la prima volta eseguito all’estero, una coreografia sacrale officiata di fronte al serafico monumento appena eretto. Furono balli sfrenati, cori al cielo e agli antenati, fino al momento apicale in cui con un coro struggente gli artisti si consultano su come procedere a costruire il collo del moai. Si invocano le buone condizioni del cielo e del mare per un lavoro che tradizionalmente impegnava un anno, ridotto in via straordinaria a tre settimane anche grazie all’uso di strumenti moderni. 

La famiglia Atan durante la diretta Rai.
La famiglia Atan durante la diretta Rai.

Juan Atan, che commentò il lavoro circondato dalla famiglia composta anche di bambini, descrisse la fatica di lavorare un materiale duro come il peperino con i loro strumenti, e raccontò del necessario utilizzo di frullini con disco diamantato offerti dalla ditta Anselmi, che vennero in soccorso alle altrimenti impossibili da usare asce e pietre taglienti dai 7 ai 15 centimetri, con cui tradizionalmente si scolpivano i moai.


L’intera operazione fu volta a sensibilizzare e garantire il recupero dei 600 moai sull’Isola allora in stato di completo abbandono, un declino già intercettato da James Cook che nel 1774 ne osservò molti in condizione di trascuratezza. Georg Forster, al seguito della stessa spedizione di Cook, descriverà il ritrovamento di alcuni moai incompiuti, abbandonati prima che fossero ultimati. 


Cinquanta passi più avanti trovammo un luogo elevato, la cui superficie era pavimentata con pietre dello stesso tipo. Al centro di questa piazza c'era un pilastro di pietra monopezzo progettato per rappresentare una figura umana, raffigurata fino alla vita, alta venti piedi e spessa cinque piedi. Questa figura era di scarsa qualità e dimostrava che la scultura era ancora agli inizi qui. Gli occhi, il naso e la bocca erano appena indicati sulla testa goffa, le orecchie, secondo l'usanza locale, erano incredibilmente lunghe e funzionavano meglio delle altre. 
Georg Forster, botanico e naturalista tedesco al seguito della spedizione di Cook.

La trasmissione RAI cercò di amplificare il lamento di Juan Atan per cui il magnetismo dell’Isola era cambiato dalla caduta dei moai e si provò, tramite donazioni, a intervenire in loro favore. 

La sistemazione dell’ultima parte, il cappello di peperino rosso (il Pukao), concluse il rito e la scultura. Il fiero moai di Vitorchiano si mostrò in tutta la sua interezza, alto circa 6 metri e pesante quasi 30 tonnellate.

Il 2 febbraio la statua fu posizionata nella piazza di fronte alle mura castellane, ma nel 2007 venne portata in Sardegna per una mostra e, al ritorno, spostata dalla sua collocazione originaria. Svetta oggi su un belvedere che è anche parcheggio per auto e sosta camper, nonostante la tradizione pasquense sconsigli fortemente di spostare un moai dal luogo in cui è stato ritualmente predisposto. 


Qualche anno fa, il capofamiglia degli Atan è venuto a mancare. Resta l’opera, questo atavico nume tutelare che per molto tempo è stato l’unico moai fuori dall’Isola di Pasqua (almeno fino al 2015, quando ne venne inaugurato un altro a Chiuduno, in provincia di Bergamo) e osserva oggi, dietro lo sguardo enigmatico, le rupi di cui è fatto, quelle stesse che per secoli hanno assorbito i riti etruschi, condividendo con loro, attraverso segrete memorie della roccia, l’eco di antichissimi rituali che solo la pietra conosce e ricorda.





Si ringraziano per le testimonianze Luca Centoni, Marco Salimbeni e il Comune di Vitorchiano.


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